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Il presente ed il futuro della logistica. Intervista al Presidente dell’Interporto di Pordenone Giuseppe Bortolussi | RSPP Bergamo

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Il presente ed il futuro della logistica. Intervista al Presidente dell’Interporto di Pordenone Giuseppe Bortolussi

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Presidente può scattare una fotografia inquadrando il mondo della logistica intesa come movimento che deve lavorare a rete?  Gli interporti nascono come un approdo di terra che cerca nuove strade per dare più concretezza alle reti infrastrutturali, industriali e commerciali. Nel mondo delle merci, mutuando il turismo, sapere che esistono luoghi che non si chiamano Venezia, ma si chiamano Bologna, Pordenone, Padova, Milano e Marcianise, sono modi per capire dove siamo. Gli interporti nascono in modo complesso e difficile proprio perché qualcuno ha pensato a questi snodi, ma un tempo, ognuno faceva quello che voleva, un industriale poteva organizzare la logistica internamente, si dotava di una flotta di trasportatori, realizzava il raccordo ferroviario, aveva un proprio magazzino. Oggi le cose sono molto cambiate… Il 70% dei servizi di logistica e trasporto è dato in outsourcing, perché ci si avvale di una rete (interporti) che tenta di concretizzare dei volumi ed abbassare i costi, questo è un passaggio cruciale, facile da dire, difficile da attuare, ma contiene 3 elementi fondamentali: l’elemento sicurezza, l’elemento green e il livello economico. Lo dico per terzo il livello economico perché è quello preponderante ed è stato quello che ha spostato ad est Europa volumi enormi di produzioni e di conseguenza trasporti. I trasportatori sfruttando il differenziale di costo tra un lavoratore italiano e uno bulgaro, ad esempio, hanno creato la marginalità. In tutto questo parliamo di sicurezza? Parliamo di orari di guida? Tornando a fotografare la situazione logistica italiana, aver connesso porti, aeroporti e interporti, è stata una visione illuminata, non sempre compresa dal mondo produttivo, perché le nostre fabbriche ragionano o hanno spesso ragionato con il franco partenza, ovvero con il trasporto a carico del cliente, il che vuol dire che le responsabilità del produttore finiscono quando il prodotto esce dalla fabbrica. Il mondo della logistica è un movimento che deve lavorare a rete e ha bisogno di essere veicolato e sintetizzarsi su nodi specifici (porti, aeroporti e interporti). Gli interporti rappresentano quindi gli snodi di una rete più ampia e devono saper sfruttare molto meglio le reti infrastrutturali, che non sono solo le autostrade ma anche le ferrovie. Oggi la quota di trasporto su gomma è assolutamente esagerata, nel caso del nord est per esempio, in A4 viaggia una media annuale di 14 milioni di veicoli pesanti, circa 240 mila veicoli pesanti al giorno da Trieste a Torino. Questi trasporti che collegano est/ovest sono agevolati dal fatto che il mezzo su gomma è più flessibile ed è figlio del just in time, dell’adesso per ieri, ma il sistema non potrà reggere a lungo questo tipo di modalità, soprattutto se parliamo di sicurezza. L’Interporto Centro Ingrosso di Pordenone lavora in una grande location industriale, mentre Nola, Marcianise e Bologna lavorano su grandi piattaforme commerciali. Per la logistica la distinzione commerciale e industriale è fondamentale, la tipologia industriale bilancia il traffico del prodotto che deve essere immesso in produzione con il prodotto che esce dalla produzione, mentre con la tipologia commerciale, ho solo prodotto vocato all’uscita ed è evidente che i costi non vengano ottimizzati, questo per la logistica è un problema. Se riesco a creare il corretto bilancio tra merci in uscita e in ingresso, ho meno camion vuoti sulla strada, solo nel nord est la quota di mezzi pesanti che viaggia in A4 senza carico è del 50%. Parlando di sicurezza quali sono i rischi per un interporto? L’interporto si dà una struttura che ha dentro di sé la ferrovia, le autostrade e di conseguenza i parcheggi di scambio e deve garantire alti standard di sicurezza. Secondo una ricerca di Autovie, che nel 2008 tracciò 30.000 carichi pericolosi in A4, si può presumere che dei 14 milioni di carichi che transitano ogni anno in A4, circa il 30% contiene carichi pericolosi. Ecco perché è importante che vengano creati parcheggi di scambio con idonee misure di sicurezza. L’Interporto di Pordenone ha poi in seno una serie di servizi come la motorizzazione, la dogana le officine e i distributori che permettono di spostare il meno possibile i mezzi e questo vuol dire anche meno emissioni in atmosfera. Meno movimentazione delle merci significa meno emissioni, un esempio ce lo offre un’azienda che lavora per Ikea che si è localizzata nell’area dell’Interporto di Pordenone e a giugno inizierà la produzione dando lavoro a 160 dipendenti, la sola localizzazione nell’interporto e la connessione diretta alla ferrovia, permetterà all’azienda di risparmiare la movimentazione di circa 300.000 bancali dal sito produttivo al sito di magazzino, da qui si evince che saranno notevolmente abbattute le emissioni di polveri sottili in atmosfera. Oggi nel settore della logistica il problema della sicurezza unito alla sensibilità ambientale, cominciano ad essere sentiti dai grandi player industriali. Come Interporto abbiamo ritenuto fondamentale dotarci di un innovativo terminal ferroviario che ha ricevuto il premio come miglior terminal intermodale ferroviario d’Italia.

Quali sono gli elementi innovativi che caratterizzano il nuovo terminal ferroviario dal punto di vista della sicurezza? Il terminal non è un semplice raccordo, ma si struttura come una vera stazione merci, di conseguenza oltre ad aver gli standard di lunghezza necessari, si è dotato di una serie di elementi di sicurezza per le persone, i carri e la protezione delle merci. Partendo dal fondo del binario dove si muovono le merci, abbiamo fatto dei piazzali con pochissima pendenza per permettere alle gru semoventi di operare in piena sicurezza. È stato improntato un sistema di recupero delle acque piovane e degli sversamenti con impianti adeguati, inoltre abbiamo previsto un binario morto per carri che necessitano di verifiche. I mezzi restano in questo modo in sosta senza bloccare l’operatività del terminal e possono essere ispezionati e sottoposti ai trattamenti di affumicazione, ove necessario. Il terminal è sotto controllo doganale, quindi completamente perimetrato con controllo degli accessi in ingresso e uscita. Ogni mezzo e persona transitante verrà tracciato. L’obiettivo del terminal è quello di operare su tratte regolari creando un sistema continuativo e costante di merci in ingresso e uscita. La telematizzazione della linea Mestre/Udine è poi un altro standard di sicurezza importante, il controllo elettronico presidia la linea 24/24 ore permettendo l’uscita di un carico in pochi minuti e anche in orario notturno. Il terminal è studiato per abbattere i costi delle manovre ferroviarie, permettendo ai treni di evitare l’ingresso diretto in stazione, grazie a zone di sosta e transito che abbassano anche i costi di gestione della sicurezza.

Quali sono le prospettive per il nuovo Terminal? Nel prossimo futuro è cruciale ottimizzare i volumi per aumentare la competitività sui mercati, è importante ridurre i costi di manovra dei mezzi e creare connessioni confacenti con le destinazioni tipiche dei nostri industriali per produrre una massa di volumi sufficiente ad abbattere i costi di trasporto anche su tratte inferiori ai 300 km.

 

Giuseppe Bortolussi, Amministratore Delegato Interporto di Pordenone

Patologie cardiache e respiratorie. Chi sono i lavoratori più esposti e come si manifestano. | DVR Bergamo

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Patologie cardiache e respiratorie. Chi sono i lavoratori più esposti e come si manifestano.

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Il polmone rappresenta l’organo più esposto ai tossici professionali costituendo inoltre la principale via di assorbimento di molte sostanze aerodisperse in ambito lavorativo.

Per capire la ragione dell’importanza dell’apparato respiratorio in ambito lavorativo basti pensare che i nostri polmoni sono costituiti da oltre 120.000 alveoli (piccole “sacchette” dove l’aria e le sostanze tossiche entrano in contatto con i capillari) che hanno una superficie interna complessiva di circa 70 mq, paragonabile a quella di un appartamento di medie dimensioni.

Questa enorme superficie di scambi fa sì che ogni tossico inalato possa essere assorbito nel sangue del lavoratore.

Ogni individuo inoltre effettua circa 17.000 atti respiratori al giorno (se è a riposo) e per tanto il volume d’aria scambiato con l’ambiente esterno giornalmente è di 8.000–20.000 litri.

Alla luce di quanto detto è evidente che ogni agente tossico presente in ambiente lavorato può determinare effetti a carico dell’apparato respiratorio e da questo andare ad interessare anche altri organi per effetto dell’assorbimento attraverso il sangue.

L’esposizione lavorativa può essere causa di una vasta gamma di malattie professionali tra le quali bronchite acuta e cronica da polveri, gas e fumi tossici, fibrosi polmonari da carbone, silice ed amianto, asma professionale (ad esempio da isocianati o polveri di cereali), malattie da iper sensibilità (polmone del contadino da inalazione di spore fungine presenti nel fieno), infezioni (ad esempio la tubercolosi) ed infine i tristemente noti tumori professionali del polmone o delle pleure (mesotelioma pleurico).

In particolare quest’ultimo assume grande rilevanza in quanto trattasi di neoplasia altamente maligna e gravata da una elevata mortalità e la cui incidenza nella popolazione generale è in aumento nonostante il bando nazionale dell’amianto (fuori produzione dal 1992) per via della lunga latenza di insorgenza (il tumore può insorgere anche a 40 anni dall’esposizione).

Tra le altre malattie merita attenzione la bronchite cronica (e l’enfisema) che può manifestarsi nei saldatori che lavorano in assenza di dispositivi di protezione (aspiratori) per effetto dell’inalazione di ossidi di metallo, la bronchite degli esposti a polveri di cemento che può evidenziarsi tra i lavoratori dei cementifici e nel comparto dell’edilizia e l’asma professionale.

Quest’ultima rappresenta una patologia emergente e spesso non diagnosticata in quanto il medico di famiglia e lo pneumologo solitamente non indagano la storia lavorativa dei soggetti visitati.

Dal momento che le malattie polmonari da lavoro possono essere anche molto gravi ed a volte letali è necessario agire in via preventiva, mantenendo salubre l’aria dell’ambiente di lavoro ed utilizzando gli appositi dispositivi di protezione individuale (mascherine/facciali filtranti adeguati alla dimensione delle particelle presenti).

È inoltre fondamentale effettuare una diagnosi precoce di eventuali malattie appena insorte per poter allontanare il lavoratore dall’esposizione nociva; a tal fine il medico competente dell’azienda effettua una visita medica mirata all’apparato respiratorio e integra l’indagine mediante la spirometria.

L’esame spirometrico si esegue con l’ausilio di uno strumento chiamato spirometro.

L’indagine è semplice, per nulla invasiva o fastidiosa ma richiede una completa collaborazione da parte del lavoratore che deve eseguire delle manovre respiratorie mentre è collegato con la bocca allo spirometro. Essa misura la funzione dei polmoni e dei bronchi in maniera semplice ed accurata.

L’indagine clinica in casi specifici può essere integrata da una radiografia del torace o (più modernamente) da una TC del torace ad alta risoluzione. Quest’ultimo esame, comportando una dose di radiazioni più elevata può essere prescritto dal medico solo in casi particolari.

Il lavoratore deve segnalare al medico competente ogni eventuale sintomo (tosse, difficoltà respiratoria, affanno) insorto in ambiente lavorativo affinché questi possa indagarne il motivo.

Ovviamente è tassativo che particolarmente coloro che lavorano esposti a tossici respiratori si astengano dal fumo di sigaretta.

Per quanto riguarda il cuore e l’apparato cardiovascolare, questo può essere il bersaglio di agenti professionali (solventi, metalli) in grado di determinare aritmie, ischemia miocardica e scompenso cardiaco. Tali effetti alle attuali esposizioni lavorative sono però divenuti fortunatamente rari.

Più comunemente può avvenire che una condizione di salute personale (ad esempio un infarto) pongano problemi di idoneità allo svolgimento di una determinata mansione che comporta ad esempio sforzi gravosi (edilizia o magazzinaggio).

In tali casi il medico competente richiederà una serie di esami (elettrocardiogramma, prova da sforzo ecocardiogramma) che sono utili a capire quale è il livello di sforzo che il lavoratore può compiere senza rischio.

Anche e soprattutto in ambito cardiovascolare è molto importante prestare attenzione alla riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare mediante riduzione dei livelli di colesterolo, controllo della pressione arteriosa, pratica di regolare attività fisica, abolizione del fumo di sigaretta.

Dott. Luca Coppeta, Professore Ordinario all’Università degli Studi di Tor Vergata

Gli adolescenti di oggi e i genitori troppo amici. Mentalizzare le relazioni non consente di dire no. | RSPP consulente esterno

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Gli adolescenti di oggi e i genitori troppo amici. Mentalizzare le relazioni non consente di dire no.

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Qualche giorno fa, leggendo un articolo su un quotidiano sono rimasta inorridita dalle modalità con cui il giornalista definiva il suicidio di un altro adolescente (il terzo nel giro di due settimane in Veneto).

Ha parlato di MORTE BIANCA, associando questi suicidi alle morti dei lattanti che si solito avvengono in culla, in maniera improvvisa ed inspiegabile.

La morte di qualcuno è sempre un evento traumatico e tragico, che lascia un segno indelebile nelle persone “che restano”, soprattutto quando parliamo di persone così giovani, nel pieno della vita e che godono di uno stato fisico di ottima salute.

Abbiamo imparato a definire tutto MORTE BIANCA, anche le morti sul lavoro vengono definite così, quasi si volesse a tutti i costi deresponsabilizzare, chiunque, di un fatto così tragico.

Perché, scusatemi, ma l’unico aggettivo che ammetto è tragico, improvviso ed inspiegabile no. Per me di inspiegabile ed improvviso, in questi suicidi non c’è nulla.

Che l’adolescenza sia un periodo della vita che espone il “non più bambino” a mutamenti fisici e grandi turbamenti emotivi in quanto si affaccia come individuo, come essere pensante e senziente, all’interno di una società che fa richieste sempre più pressanti, è noto a tutti ed esiste sin dalla notte dei tempi.

Ma se è vero che è un passaggio obbligato della vita, allora mi sorge spontaneamente una domanda “perché una volta no, e oggi un adolescente arriva così accessibilmente al suicidio?”. “Perché un adolescente ha la convinzione che non esistono vie di uscita e l’unica soluzione sia interrompere una sofferenza così devastante?”

Non servono manuali di psicologia per renderci edotti in questo, ma è noto ormai ai più che per poter passare dalla condizione infantile a quella adulta, si deve necessariamente e metaforicamente “uccidere” il bambino che abita dentro di noi, abbandonare le certezze ricevute dal nucleo familiare e addentrarsi nella “selva oscura” del mondo adulto.

Questo non è certamente un passaggio semplice e, la tristezza, la solitudine che si prova “perché nessuno mi capisce” sono sentimenti che accomunano e che hanno accomunato gli adolescenti di tutti i tempi.

E allora perché ad un certo punto le “porte si chiudono”?

Ho cercato di darmi una spiegazione e credo che, seppur in un processo evolutivo di enorme portata, ci siamo trovati ad aderire a proposte educative di “riempimento” piuttosto che di guida.

Ci siamo dati degli appellativi che trovo assurdi, ad esempio di “immigrati digitali”, in quanto la soluzione migliore, quella che abbiamo trovato per alleviare le nostre coscienze, per toglierci da ogni responsabilità, quella più titolata e che accomuna il pensiero comune è quella del “se non conosco, non lo posso fare”.

Ed ancora una volta l’adesione ad un pensiero condiviso e condivisibile ci mette al riparo da qualsiasi critica, da qualsiasi presa di posizione, dall’essere educatori.

Ci troviamo così a riempire secchi, colmare le lacune affettive e le assenze con cose, oggetti, con tutto ciò che ci lascia vivere in pace “senza colpo ferire”.

Non “guardiamo” più i nostri ragazzi, non siamo più i loro “specchi”, perché se li autorizzassimo a fare questo, ci esporremmo troppo, ci metteremmo a nudo, ci sentiremmo depauperati, in qualche modo, di un ruolo che facciamo fatica a mantenere, abbiamo paura che i nostri ragazzi possano vedere solo le nostre debolezze.

Non ci viene in mente che loro ci guardano in tutta la nostra interezza, non ci viene in mente che dobbiamo essere per loro un punto di riferimento, non ci viene in mente che abbiano bisogno di regole, non ci viene in mente che gli adulti rimaniamo sempre noi e che siamo sempre noi a consegnare loro le chiavi di accesso nel mondo adulto.

Come cicale in coro ci troviamo a parlare, discutere, criticare, a fare un chiasso assordante ed inconsistente, su quanto sia difficile fare gli educatori oggi, su quanto sia difficile trasmettere regole e saperi.

Alla fine, però, di tutto questo gran parlare, facciamo la fine delle cicale, che “dopo un’estate spesa a cantare muoiono”.

Non possiamo di certo aspettare che arrivi un principe azzurro a svegliarci dal sonno, non possiamo continuare ad aspettare che sia sempre qualcun altro a “trovare la soluzione”.

A volte complichiamo per semplificare, ma in questo caso abbiamo semplificato la vita per complicare l’esistenza.

Ci bendiamo, non ascoltiamo, ci basta sentire i passi del nostro bambino (tredicenne) che rincasa a notte fonda (quando ce ne accorgiamo). E poi ci troviamo da Barbara D’Urso a raccontare, in un crescendo apocalittico di ipocrisia, i fatti.

Tra le lacrime i genitori raccontano che era un ragazzo tranquillo, che non aveva grilli per la testa, che non è stata colpa sua, che qualcuno lo ha indotto a comportarsi così. Di fatto non sanno assolutamente nulla della vita dei loro ragazzi, di come passano il tempo, con chi, quando escono, quando entrano.

Riaccendere nei nostri ragazzi il fuoco della passione, lasciarli ardere per qualcosa o per qualcuno, lasciarli cadere, ma essere lì, pronti per tender loro la mano, quando non ce la fanno a rialzarsi.

Questo è un educatore, questo è fare educazione: accompagnare, non fare la loro posto.

E qui non centrano i social network, non centra il controllo, non c’entra il voler trasgredire per dire “io ci sono”, c’entra solo che nel nostro personale processo evolutivo abbiamo scordato che empatia fa rima, da sempre, con autonomia.

Non sono una predicatrice, ma un’osservatrice sì. E quello che osservo, come in un sottile filo rosso che accomuna gli adolescenti e gli uomini di tutti i tempi è che, l’unico motore, quello che realmente “muove il mondo” è l’amore.

Lascio che siano le parole di Jung a spiegare quello che voglio dire certa che, la comune convinzione, sia che vivere sia, in estrema sintesi, un ATTO DI CORAGGIO.

“Comincia sempre da te; in tutte le cose e soprattutto con l’amore. Amore è portare e sopportare se stessi. La cosa comincia così. Si tratta veramente di te; tu non hai ancora finito di ardere; devono arrivarti ancora altri fuochi finché tu non abbia accettato la tua solitudine e imparato ad amare”. (C. G. Jung – Libro Rosso).

Dott.ssa Giuseppina Filieri, A.D. della Fondazione Asso.Safe