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Il presente ed il futuro della logistica. Intervista al Presidente dell’Interporto di Pordenone Giuseppe Bortolussi | RSPP Bergamo

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Il presente ed il futuro della logistica. Intervista al Presidente dell’Interporto di Pordenone Giuseppe Bortolussi

RSPP Bergamo

Presidente può scattare una fotografia inquadrando il mondo della logistica intesa come movimento che deve lavorare a rete?  Gli interporti nascono come un approdo di terra che cerca nuove strade per dare più concretezza alle reti infrastrutturali, industriali e commerciali. Nel mondo delle merci, mutuando il turismo, sapere che esistono luoghi che non si chiamano Venezia, ma si chiamano Bologna, Pordenone, Padova, Milano e Marcianise, sono modi per capire dove siamo. Gli interporti nascono in modo complesso e difficile proprio perché qualcuno ha pensato a questi snodi, ma un tempo, ognuno faceva quello che voleva, un industriale poteva organizzare la logistica internamente, si dotava di una flotta di trasportatori, realizzava il raccordo ferroviario, aveva un proprio magazzino. Oggi le cose sono molto cambiate… Il 70% dei servizi di logistica e trasporto è dato in outsourcing, perché ci si avvale di una rete (interporti) che tenta di concretizzare dei volumi ed abbassare i costi, questo è un passaggio cruciale, facile da dire, difficile da attuare, ma contiene 3 elementi fondamentali: l’elemento sicurezza, l’elemento green e il livello economico. Lo dico per terzo il livello economico perché è quello preponderante ed è stato quello che ha spostato ad est Europa volumi enormi di produzioni e di conseguenza trasporti. I trasportatori sfruttando il differenziale di costo tra un lavoratore italiano e uno bulgaro, ad esempio, hanno creato la marginalità. In tutto questo parliamo di sicurezza? Parliamo di orari di guida? Tornando a fotografare la situazione logistica italiana, aver connesso porti, aeroporti e interporti, è stata una visione illuminata, non sempre compresa dal mondo produttivo, perché le nostre fabbriche ragionano o hanno spesso ragionato con il franco partenza, ovvero con il trasporto a carico del cliente, il che vuol dire che le responsabilità del produttore finiscono quando il prodotto esce dalla fabbrica. Il mondo della logistica è un movimento che deve lavorare a rete e ha bisogno di essere veicolato e sintetizzarsi su nodi specifici (porti, aeroporti e interporti). Gli interporti rappresentano quindi gli snodi di una rete più ampia e devono saper sfruttare molto meglio le reti infrastrutturali, che non sono solo le autostrade ma anche le ferrovie. Oggi la quota di trasporto su gomma è assolutamente esagerata, nel caso del nord est per esempio, in A4 viaggia una media annuale di 14 milioni di veicoli pesanti, circa 240 mila veicoli pesanti al giorno da Trieste a Torino. Questi trasporti che collegano est/ovest sono agevolati dal fatto che il mezzo su gomma è più flessibile ed è figlio del just in time, dell’adesso per ieri, ma il sistema non potrà reggere a lungo questo tipo di modalità, soprattutto se parliamo di sicurezza. L’Interporto Centro Ingrosso di Pordenone lavora in una grande location industriale, mentre Nola, Marcianise e Bologna lavorano su grandi piattaforme commerciali. Per la logistica la distinzione commerciale e industriale è fondamentale, la tipologia industriale bilancia il traffico del prodotto che deve essere immesso in produzione con il prodotto che esce dalla produzione, mentre con la tipologia commerciale, ho solo prodotto vocato all’uscita ed è evidente che i costi non vengano ottimizzati, questo per la logistica è un problema. Se riesco a creare il corretto bilancio tra merci in uscita e in ingresso, ho meno camion vuoti sulla strada, solo nel nord est la quota di mezzi pesanti che viaggia in A4 senza carico è del 50%. Parlando di sicurezza quali sono i rischi per un interporto? L’interporto si dà una struttura che ha dentro di sé la ferrovia, le autostrade e di conseguenza i parcheggi di scambio e deve garantire alti standard di sicurezza. Secondo una ricerca di Autovie, che nel 2008 tracciò 30.000 carichi pericolosi in A4, si può presumere che dei 14 milioni di carichi che transitano ogni anno in A4, circa il 30% contiene carichi pericolosi. Ecco perché è importante che vengano creati parcheggi di scambio con idonee misure di sicurezza. L’Interporto di Pordenone ha poi in seno una serie di servizi come la motorizzazione, la dogana le officine e i distributori che permettono di spostare il meno possibile i mezzi e questo vuol dire anche meno emissioni in atmosfera. Meno movimentazione delle merci significa meno emissioni, un esempio ce lo offre un’azienda che lavora per Ikea che si è localizzata nell’area dell’Interporto di Pordenone e a giugno inizierà la produzione dando lavoro a 160 dipendenti, la sola localizzazione nell’interporto e la connessione diretta alla ferrovia, permetterà all’azienda di risparmiare la movimentazione di circa 300.000 bancali dal sito produttivo al sito di magazzino, da qui si evince che saranno notevolmente abbattute le emissioni di polveri sottili in atmosfera. Oggi nel settore della logistica il problema della sicurezza unito alla sensibilità ambientale, cominciano ad essere sentiti dai grandi player industriali. Come Interporto abbiamo ritenuto fondamentale dotarci di un innovativo terminal ferroviario che ha ricevuto il premio come miglior terminal intermodale ferroviario d’Italia.

Quali sono gli elementi innovativi che caratterizzano il nuovo terminal ferroviario dal punto di vista della sicurezza? Il terminal non è un semplice raccordo, ma si struttura come una vera stazione merci, di conseguenza oltre ad aver gli standard di lunghezza necessari, si è dotato di una serie di elementi di sicurezza per le persone, i carri e la protezione delle merci. Partendo dal fondo del binario dove si muovono le merci, abbiamo fatto dei piazzali con pochissima pendenza per permettere alle gru semoventi di operare in piena sicurezza. È stato improntato un sistema di recupero delle acque piovane e degli sversamenti con impianti adeguati, inoltre abbiamo previsto un binario morto per carri che necessitano di verifiche. I mezzi restano in questo modo in sosta senza bloccare l’operatività del terminal e possono essere ispezionati e sottoposti ai trattamenti di affumicazione, ove necessario. Il terminal è sotto controllo doganale, quindi completamente perimetrato con controllo degli accessi in ingresso e uscita. Ogni mezzo e persona transitante verrà tracciato. L’obiettivo del terminal è quello di operare su tratte regolari creando un sistema continuativo e costante di merci in ingresso e uscita. La telematizzazione della linea Mestre/Udine è poi un altro standard di sicurezza importante, il controllo elettronico presidia la linea 24/24 ore permettendo l’uscita di un carico in pochi minuti e anche in orario notturno. Il terminal è studiato per abbattere i costi delle manovre ferroviarie, permettendo ai treni di evitare l’ingresso diretto in stazione, grazie a zone di sosta e transito che abbassano anche i costi di gestione della sicurezza.

Quali sono le prospettive per il nuovo Terminal? Nel prossimo futuro è cruciale ottimizzare i volumi per aumentare la competitività sui mercati, è importante ridurre i costi di manovra dei mezzi e creare connessioni confacenti con le destinazioni tipiche dei nostri industriali per produrre una massa di volumi sufficiente ad abbattere i costi di trasporto anche su tratte inferiori ai 300 km.

 

Giuseppe Bortolussi, Amministratore Delegato Interporto di Pordenone

Gli adolescenti di oggi e i genitori troppo amici. Mentalizzare le relazioni non consente di dire no. | RSPP consulente esterno

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Gli adolescenti di oggi e i genitori troppo amici. Mentalizzare le relazioni non consente di dire no.

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Qualche giorno fa, leggendo un articolo su un quotidiano sono rimasta inorridita dalle modalità con cui il giornalista definiva il suicidio di un altro adolescente (il terzo nel giro di due settimane in Veneto).

Ha parlato di MORTE BIANCA, associando questi suicidi alle morti dei lattanti che si solito avvengono in culla, in maniera improvvisa ed inspiegabile.

La morte di qualcuno è sempre un evento traumatico e tragico, che lascia un segno indelebile nelle persone “che restano”, soprattutto quando parliamo di persone così giovani, nel pieno della vita e che godono di uno stato fisico di ottima salute.

Abbiamo imparato a definire tutto MORTE BIANCA, anche le morti sul lavoro vengono definite così, quasi si volesse a tutti i costi deresponsabilizzare, chiunque, di un fatto così tragico.

Perché, scusatemi, ma l’unico aggettivo che ammetto è tragico, improvviso ed inspiegabile no. Per me di inspiegabile ed improvviso, in questi suicidi non c’è nulla.

Che l’adolescenza sia un periodo della vita che espone il “non più bambino” a mutamenti fisici e grandi turbamenti emotivi in quanto si affaccia come individuo, come essere pensante e senziente, all’interno di una società che fa richieste sempre più pressanti, è noto a tutti ed esiste sin dalla notte dei tempi.

Ma se è vero che è un passaggio obbligato della vita, allora mi sorge spontaneamente una domanda “perché una volta no, e oggi un adolescente arriva così accessibilmente al suicidio?”. “Perché un adolescente ha la convinzione che non esistono vie di uscita e l’unica soluzione sia interrompere una sofferenza così devastante?”

Non servono manuali di psicologia per renderci edotti in questo, ma è noto ormai ai più che per poter passare dalla condizione infantile a quella adulta, si deve necessariamente e metaforicamente “uccidere” il bambino che abita dentro di noi, abbandonare le certezze ricevute dal nucleo familiare e addentrarsi nella “selva oscura” del mondo adulto.

Questo non è certamente un passaggio semplice e, la tristezza, la solitudine che si prova “perché nessuno mi capisce” sono sentimenti che accomunano e che hanno accomunato gli adolescenti di tutti i tempi.

E allora perché ad un certo punto le “porte si chiudono”?

Ho cercato di darmi una spiegazione e credo che, seppur in un processo evolutivo di enorme portata, ci siamo trovati ad aderire a proposte educative di “riempimento” piuttosto che di guida.

Ci siamo dati degli appellativi che trovo assurdi, ad esempio di “immigrati digitali”, in quanto la soluzione migliore, quella che abbiamo trovato per alleviare le nostre coscienze, per toglierci da ogni responsabilità, quella più titolata e che accomuna il pensiero comune è quella del “se non conosco, non lo posso fare”.

Ed ancora una volta l’adesione ad un pensiero condiviso e condivisibile ci mette al riparo da qualsiasi critica, da qualsiasi presa di posizione, dall’essere educatori.

Ci troviamo così a riempire secchi, colmare le lacune affettive e le assenze con cose, oggetti, con tutto ciò che ci lascia vivere in pace “senza colpo ferire”.

Non “guardiamo” più i nostri ragazzi, non siamo più i loro “specchi”, perché se li autorizzassimo a fare questo, ci esporremmo troppo, ci metteremmo a nudo, ci sentiremmo depauperati, in qualche modo, di un ruolo che facciamo fatica a mantenere, abbiamo paura che i nostri ragazzi possano vedere solo le nostre debolezze.

Non ci viene in mente che loro ci guardano in tutta la nostra interezza, non ci viene in mente che dobbiamo essere per loro un punto di riferimento, non ci viene in mente che abbiano bisogno di regole, non ci viene in mente che gli adulti rimaniamo sempre noi e che siamo sempre noi a consegnare loro le chiavi di accesso nel mondo adulto.

Come cicale in coro ci troviamo a parlare, discutere, criticare, a fare un chiasso assordante ed inconsistente, su quanto sia difficile fare gli educatori oggi, su quanto sia difficile trasmettere regole e saperi.

Alla fine, però, di tutto questo gran parlare, facciamo la fine delle cicale, che “dopo un’estate spesa a cantare muoiono”.

Non possiamo di certo aspettare che arrivi un principe azzurro a svegliarci dal sonno, non possiamo continuare ad aspettare che sia sempre qualcun altro a “trovare la soluzione”.

A volte complichiamo per semplificare, ma in questo caso abbiamo semplificato la vita per complicare l’esistenza.

Ci bendiamo, non ascoltiamo, ci basta sentire i passi del nostro bambino (tredicenne) che rincasa a notte fonda (quando ce ne accorgiamo). E poi ci troviamo da Barbara D’Urso a raccontare, in un crescendo apocalittico di ipocrisia, i fatti.

Tra le lacrime i genitori raccontano che era un ragazzo tranquillo, che non aveva grilli per la testa, che non è stata colpa sua, che qualcuno lo ha indotto a comportarsi così. Di fatto non sanno assolutamente nulla della vita dei loro ragazzi, di come passano il tempo, con chi, quando escono, quando entrano.

Riaccendere nei nostri ragazzi il fuoco della passione, lasciarli ardere per qualcosa o per qualcuno, lasciarli cadere, ma essere lì, pronti per tender loro la mano, quando non ce la fanno a rialzarsi.

Questo è un educatore, questo è fare educazione: accompagnare, non fare la loro posto.

E qui non centrano i social network, non centra il controllo, non c’entra il voler trasgredire per dire “io ci sono”, c’entra solo che nel nostro personale processo evolutivo abbiamo scordato che empatia fa rima, da sempre, con autonomia.

Non sono una predicatrice, ma un’osservatrice sì. E quello che osservo, come in un sottile filo rosso che accomuna gli adolescenti e gli uomini di tutti i tempi è che, l’unico motore, quello che realmente “muove il mondo” è l’amore.

Lascio che siano le parole di Jung a spiegare quello che voglio dire certa che, la comune convinzione, sia che vivere sia, in estrema sintesi, un ATTO DI CORAGGIO.

“Comincia sempre da te; in tutte le cose e soprattutto con l’amore. Amore è portare e sopportare se stessi. La cosa comincia così. Si tratta veramente di te; tu non hai ancora finito di ardere; devono arrivarti ancora altri fuochi finché tu non abbia accettato la tua solitudine e imparato ad amare”. (C. G. Jung – Libro Rosso).

Dott.ssa Giuseppina Filieri, A.D. della Fondazione Asso.Safe

La vendemmia, come in questi anni sono cambiate le attività di raccolta dell’uva – RSPP Bergamo

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La vendemmia, come in questi anni sono cambiate le attività di raccolta dell’uva

RSPP Bergamo

L’afa dell’estate ha ceduto il passato all’aria mite di settembre, le foglie degli alberi ci raccontano che non è più tempo di festa, e le giornate, sempre più corte, ci ricordano che l’autunno è ormai alle porte.

Gli odori di questo mese però, non fanno altro che ricordarmi che questo per me, da piccola, era un periodo di festa.

C’era la vendemmia! E la vendemmia ai tempi di mio nonno, metteva tutti in fermento.

Organizzare gli uomini e le donne per la raccolta, il rimorchio dietro il vecchio trattore per trasportare l’uva, il lavaggio dei tini. Io, invece, mi preoccupavo di quali indumenti e di quali scarpe avrei dovuto indossare e mi accertavo che ci fossero un paio di forbici anche per me. La sveglia era all’alba e alle quattro del mattino era ancora buio.

Le gocce di brina sulle viti brillavano, e gli acini dei grandi grappoli d’uva, mi sembravano preziosi gioielli.

Percorrevo la “carrara” (dialetto salentino), un corridoio di terreno che divideva in due i campi in cui c’erano i filari, con mio fratello e i miei cugini, seguendo le voci delle donne, che già a quell’ora ridevano e scherzavano, raccontando aneddoti divertenti e barzellette. Con un secchio bianco in mano e le forbici, fiera, sceglievo un filare. Io e mio cugino dividevamo il filare.

Dovevo fare attenzione con le forbici e stare attenta a non tagliarmi, altrimenti non avrei più potuto vendemmiare.

Gli uomini, invece, avevano già disposto i tini neri nei filari, in modo che i secchi d’uva potessero essere svuotati e successivamente riempiti.

Sento ancora addosso la brina delle viti che mi bagna, l’odore e, al tempo stesso, il peso dei grappoli. E che dolore alla mano a forza di tagliare, la schiena e le gambe, a mezzogiorno, mi facevano male! Oltre al vociare delle donne, sentivo il rumore delle forbici, che prepotente si univa all’unisono a ricordarci che la fine del filare era ancora lontano.

Gli uomini, invece, avevano il compito di portare fuori i tini e svuotarli nel grande carrello posto dietro al trattore. I tini venivano sollevati da due uomini e posti sulla spalla di uno dei due (tra collo e braccio).

Questi avevano il compito di trasportare il “cofano” (così veniva chiamato in dialetto il tino pieno d’uva). I più piccoli si divertivano a pressare l’uva all’interno del tino, affinché il carico potesse diventare più pesante.

Quanto mi faceva ridere vederli imprecare perché il tino era pesantissimo.

 Ogni tino poteva contenere dai 50 ai 60 kg d’uva.

Ricordo che per evitare che il tino poggiasse direttamente sulla spalla, avevano una protezione, di materiale soffice avvolta in un pezzo di sacco di juta, cucito al centro, ai cui lati era stato fissato uno spago (si metteva sotto il braccio opposto a quello sul quale si sarebbe posto il carico). Aveva la forma di una mezza luna.

Mio nonno coordinava le operazioni di carico e scarico, accertandosi che durante lo svuotamento dei tini nel grande carro, l’uva non cadesse per terra. Mia nonna, invece, coordinava le donne nel lavoro di raccolta.

Di tanto in tanto mi capitava di vederla andare, col secchio in mano, qua e là tra i filari: raccoglieva l’uva migliore che sarebbe stata posta per ultima sopra il rimorchio, prima del trasporto in cantina. In questo modo la gradazione dell’uva sarebbe stata più alta e di conseguenza anche la retribuzione.

Era molto scaltra e si muoveva velocemente: non ho mai capito come facesse a terminare prima delle altre donne il suo filare, che non si dovevano accorgere di questo stratagemma che aveva ideato. Credo che neanche mio nonno ne fosse al corrente.

Mio nonno, prima di congedare le raccoglitrici, controllava tra i filari, e, se vedeva degli acini d’uva caduti e lasciati per terra, erano davvero guai. Urlava che erano grandi come fichi fioroni (culumbi, diceva lui), si metteva a raccoglierli e noi bambini, dovevamo, appresso a lui, fare la stessa cosa.

Alle undici e mezza arrivava l’attesa “pagnotta” con mortadella e provola: che bello era mangiarla con le mani ancora sporche d’uva, seduti al fresco sotto un albero. Era il nostro compenso!

Questi tesori di inestimabile valore, e per me sono ricordi preziosissimi, ma solo oggi, pesandoci, mi rendo conto a quanti rischi ci si esponeva, incoscientemente. È vero, parliamo di trent’anni fa, e di certo, allora, la priorità era il raccolto e non la messa in sicurezza delle persone.

Con la mente ritorno a quei giorni e vedo persone come muletti, donne chine sotto le viti a tagliare, con la schiena arcuata, il fresco e l’umido del mattino, che penetra nelle ossa, il caldo di metà giornata che toglie il respiro, il trasporto su strada del raccolto su un mezzo forse non troppo a norma.

Le modalità di raccolta dell’uva, a distanza di molti anni, sono ancora prevalentemente di tipo manuale, e, se anche sono cambiate alcune condizioni lavorative, di fatto l’esposizione ai rischi degli operatori, è pressoché invariata.

Se un tempo le attività agricole non rientravano all’interno di categorie o classi lavorative considerate a rischio, o all’interno di una determinazione tale da rendere la subordinazione tra titolare e dipendente (ricordiamo che le aziende agricole a conduzione familiare non rientravano, fino a pochissimo tempo fa, nella definizione di azienda data dal Testo Unico) una condizione lavorativa (quindi l’espletamento di una mansione), da mettere in sicurezza, oggi diventa di prioritaria importanza considerare gli agricoltori alla stregua di qualsiasi altro lavoratore. Questo vale anche per il personale cosiddetto “avventizio”.

All’interno di detta categoria rientrano anche i lavoratori, definiti stagionali, perché svolgono la stessa attività, presso la stessa azienda, per un numero di giornate non superiori a cinquanta nell’arco dell’anno.

Unica condizione è che le lavorazioni in cui vengono impiegati, siano semplici e generiche e non richiedano requisiti professionali specifici.

Con la pubblicazione del Decreto Interministeriale del 27 marzo 2013 riguardante la “Semplificazione in materia di informazione, formazione e sorveglianza sanitaria dei lavoratori stagionali del settore agricolo” vengono definiti due punti importanti:

  • La formazione del personale
  • La Sorveglianza Sanitaria e la visita preventiva

A seguito dell’art. 3 del D.M. 23 marzo 2013, per la formazione del personale stagionale, si propone una metodologia specifica per ottemperare a tale obbligo, affinché il processo di apprendimento possa essere non solo potenziato, ma anche mirato alla specifica mansione e possa, contestualmente, essere facilmente gestito dall’azienda agricola.

Tale metodologia prevede una formazione ed un addestramento da effettuarsi prima dell’inizio dell’attività lavorativa.

L’applicazione di questa metodica, definisce e sottolinea tre elementi chiave che, a mio avviso, dovrebbero essere adottati per tutte le realtà lavorative:

Effettuare la formazione specifica calibrandola sulla singola realtà aziendale. La formazione e la sicurezza, quali elementi integrati alla cultura del lavoro, prevedono l’attivazione di un processo di apprendimento che dovrebbe avvenire, non solo mediante la fruizione di lezioni in aula, ma dovrebbe essere necessariamente contestualizzato alle attività di lavoro.

Pertanto le informazioni devono essere utili al lavoratore nello scenario operativo e non essere dei meri riferimenti normativi generali ed aspecifici.

Per quanto concerne la Sorveglianza Sanitaria e la Visita Preventiva, è lo stesso Decreto Interministeriale a definire l’obbligo di Visita se, dalla valutazione dei rischi emerge che, il lavoratore stagionale, durante l’espletamento della mansione è esposto a dei rischi specifici. Tenendo conto dei rischi cui è esposto il lavoratore addetto alla vendemmia manuale (movimentazione manuale dei carichi, tagli agli arti superiori, movimenti ripetitivi, esposizione e clima severo caldo, scivolamenti e/o cadute a livello, cadute dall’alto, investimenti, rischio biologico) è necessario che il datore di lavoro li sottoponga alla visita preventiva.

Con questo non intendo dire che il datore di lavoro debba scegliere addetti alti, belli, forti e con un sorriso smagliante, ma uomini e donne che possano svolgere un lavoro che, seppur nella sua semplicità, possa ridurre al minimo i rischi cui, gioco forza, sono esposti.

Se da un lato le aziende agricole fanno fatica a “digerire l’obbligo normativo”, dall’altro ci troviamo con costi di raccolta altissimi e mancanza di personale avventizio da poter impiegare nelle operazioni di raccolta.

Per queste ragioni, pur prediligendo, a tutt’oggi, una vendemmia di tipo manuale, si sta facendo strada, e a grandi passi, soprattutto nelle grandi realtà viticole, la vendemmia meccanizzata.

Le vendemmiatrici, ce ne sono di diversi tipi sul mercato a seconda del tipo di coltura e terreno su cui verranno utilizzate, risolvono il problema dell’organizzazione e della gestione del personale, limitando le problematiche connesse alla sicurezza sul lavoro, ai rapporti fra gli operai e quelle relative alla manodopera. Inoltre sono in grado di velocizzare le operazioni di raccolta.

Di tipo semovente o trainato e lavorando avanzando nell’interfilare, oppure a cavallo del filare (scavallatrici), in base alle forme di allevamento, operano uno scuotimento della parete produttiva del vigneto, potendo così, in un’unica operazione, provvedere al distacco degli acini, alla separazione delle foglie e al caricamento del prodotto in un apposito serbatoio.

L’addetto all’uso della vendemmiatrice è comunque esposto a rischi specifici, quali ad esempio: rischio biologico, rischio meccanico connesso alle fasi di scarico, carico e regolazione della macchina, rischi connessi all’utilizzo della trattrice agricola.

Quindi, anche per gli “autisti” addetti alla conduzione della vendemmiatrice, il titolare dell’azienda agricola, deve provvedere alla messa in sicurezza dell’operatore ed alla verifica dell’idoneità psicofisica per la conduzione del mezzo. Se da un lato, quindi, cerchiamo, attraverso la meccanizzazione e la tecnologia di dare la giusta innovazione, dall’altro, rimaniamo ancorati a sistemi di lavoro fin troppo tradizionali, e a gap culturali, che, a volte non ci consentono di comprendere che, avere una persona sana e formata, significa investire su una risorsa che permette di risparmiare tempo e di conseguenza portano ad avere una diminuzione dei costi.

La saggezza e la sapienza dei contadini di un tempo, sono passati, oggi, nelle mani di viticoltori specializzati che, oltre alla custodia delle tradizioni non possono dimenticare che, nella pratica agricola, la custodia dell’uomo è di fondamentale importanza.

Che sia manuale o meccanica, la vendemmia rimane il momento dell’anno che ha sapore di antico, di mani che raccolgono, di piedi che pestano, di odori e colori che seducono, di risate di bimbi che, festosi, corrono su e giù per i filari. Questo è il vero patrimonio dell’umanità.

Dott.ssa Giuseppina Filieri, A.D. della Fondazione Asso.Safe

Lo Storytelling: una strategia per formare i lavoratori | RSPP esterno

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Lo Storytelling: una strategia per formare i lavoratori

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«La narrazione è un’attività umana fondamentale, un modo di pensare e di essere». Parole di Steve Jobs che è stato capace di raccontare la sua storia nel modo più efficace. Chi non conosce oggi Apple e la sua mela?

Una storia cattura l’attenzione e coinvolge chi ascolta: lo storytelling utilizza la narrazione dei racconti ed è una innovativa ed efficace tecnica di comunicazione a cui un numero sempre maggiore di aziende ricorre.

Con obiettivi precisi, far sì che i consumatori diventino parte della storia e vivano le stesse esperienze ed emozioni.

Far sì che le storie raccontate si propaghino grazie al passaparola, che non è cosa insolita perché nessuno di noi riesce a smettere di raccontare storie, così come non rinuncia mai a cercarne di nuove.

Far sì che i clienti scelgano i prodotti più per ciò che essi rappresentano con la loro storia che per quello che sono.

Far sì che si creino brand aziendale forti, marchi basati essenzialmente su una storia.

Tra i primi a sperimentare questa tecnica Rana e Amadori che hanno scelto di essere testimonial in prima persona delle campagne pubblicitarie.

Lo storytelling è tutto questo, ed è molto di più.

Preso in prestito dal marketing americano, oggi viene applicato anche in diversi campi della formazione. Nel business come in politica: i candidati la utilizzano per spiegare i loro programmi agli elettori e convincerli a votarli.

Il saper narrare è generatore di apprendimento e cambiamento ed è qui che entrano in campo formatori e manager.

Il termine “formazione” deriva dal latino  formatiōne: significa attivazione di un processo che dalla prima acquisizione di concetti giunga alla loro assimilazione.

Nella formazione, il racconto di storie aumenta la potenza della comunicazione perché trasmette emozioni grazie ai percorsi narrativi nei quali le persone riescono a identificarsi. Lo storytelling garantisce l’ascolto e il coinvolgimento delle persone, influenza il loro pensiero e il loro comportamento.

Uno strumento potente quindi, soprattutto per trasmettere nuovi obiettivi, proporre cambiamenti, superare ostacoli.

Ma la tecnica dello storytelling si può applicare a tutte le attività di formazione per la sicurezza nel mondo del lavoro? Assolutamente si! È facile da applicare? Forse no, ma sicuramente possibile.

Lo storytelling è una tecnica precisa. Ci sono studi specifici che classificano le tipologie delle storie, indicano quali sono i fattori da tenere presente per poter creare i racconti. È necessario quindi studiare una strategia adeguata per ogni realtà.

Le storie devono essere reali, fruibili, apprezzabili ed efficaci. Devono poter coinvolgere il nostro interlocutore come se stesse ascoltando una fiaba. Quindi servono: una trama, un eroe, un’impresa, le avversità e la conquista di un “el dorado”.

Bisogna creare storie che possano condividere conoscenze, che raccontino quello che siamo, che producano azioni e che trasmettano valori morali. Ma soprattutto che abbiano un obiettivo finale che permetta di vedere ciò che potrà accadere di positivo in un prossimo futuro.

Cosa ci serve oggi? Cercare di applicare quello che sappiamo già, non dimenticare le competenze e le esperienze apprese nel tempo, specialmente quando dobbiamo salvaguardare la nostra vita dai pericoli che corriamo durante il nostro lavoro quotidiano.

Lo storytelling è il metodo di formazione migliore in questo campo perché mette al centro del percorso di apprendimento la “persona”, e non solo le competenze operative spesso unicamente teoriche.

Si è imparato sempre qualcosa di nuovo quando è finita la formazione, e quello che si è appreso lo si applica tutti i giorni nell’attività lavorativa, mettendosi “alla prova”. Magari semplicemente domandandosi: «Che cosa sto facendo? È corretto il modo in cui svolgo il mio lavoro? Posso farlo in maniera più sicura?». A queste domande troveremo le risposte nel ricordo della storia raccontata e vissuta dal formatore e creando a nostra volta una propria storia personale che potrà essere di esempio ai nostri colleghi.

No, non è un’impresa facile! Per fare questo bisogna prima guardarci allo specchio e poi interrogarci su chi siamo, cosa facciamo, quali obiettivi ci poniamo costantemente, quali sono i nostri sogni, dove vogliamo arrivare, cosa vogliamo trasmettere agli altri, in cosa crediamo veramente. Questo vale per tutti i ruoli, sia per il formatore sia per il discente.

Ops! Troppe domande? Forse mi sono lasciato prendere la mano.

Nelle mie esperienze lavorative vissute in azienda come manager spesso ho dovuto costatare che i primi a non voler rispondere sono proprio gli imprenditori e spesso anche gli stessi formatori.

Ti dicono cosa e come devi fare solo perché hanno l’autorità per farlo. Come se divulgando i propri sogni e le proprie ambizioni svelassero la ricetta segreta del loro successo.

Ma le aziende sono fatte di persone. Che contribuiscono giornalmente al raggiungimento degli obiettivi aziendali. Questo non dovremmo dimenticarlo mai.

Prima di creare la nostra storia, dobbiamo perciò conoscere la storia dei nostri collaboratori. E in questo ci può aiutare la formazione che aiuta noi e loro a raccontarci e a conoscerci, per poi poter creare e realizzare la nostra storia personale.

Non importa quello che produciamo, se macchine o servizi, vendita o noleggio, sicurezza o formazione. Conta in che modo lo trasmettiamo ai nostri potenziali allievi, collaboratori, discenti. E se anche loro avessero delle storie da raccontarci? Proviamo ad ascoltarle! Buon storytelling a tutti.

 

Dott. Michele Curatella, Membro del C.T.S. della Fondazione Asso.Safe

È stata costituita Confidal un nuovo soggetto a garanzia del mondo del lavoro | Consulente RSPP Bergamo

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È stata costituita Confidal un nuovo soggetto a garanzia del mondo del lavoro

Consulente RSPP Bergamo

Sviluppo, crescita, sostegno alle imprese, informazione, sono solo alcune tra le priorità condivise da ADLI, ASSIDAL E UNAPRI, che hanno portato alla nascita della Confederazione Italiana Datoriale Attività Lavorative, in sigla CONFIDAL.

È vero che è dal bisogno che nascono i progetti, ma è anche vero che, avere la consapevolezza che l’arma vincente sia la sinergia, quando c’è il perseguimento di finalità comuni, che nascono le alleanze.

Ed è proprio dalla comunione di intenti tra queste tre realtà che, il 13 settembre scorso, con Atto Costitutivo, registrato presso l’Agenzia delle Entrate a Pescara il 19 settembre, ha preso vita CONFIDAL.

La premessa assunta dalle parti che hanno sottoscritto l’intesa, è che, avere una visione integrata tra mondo del Lavoro, mondo dell’Educazione, mondo del Sociale, e non ultimo, mondo delle Norme, sia fondamentale per la crescita e lo sviluppo di una cultura della sicurezza.

La domanda di partenza è se esista un progetto integrato che tenga conto di questi elementi, quali parti fondanti di un patto o di un’alleanza.

Certo che esiste ed è frutto della prima evidenza emersa dalle riflessioni delle tre associazioni: in Italia la “tutela” non esiste. Esistono, invece, le TUTELE, come realtà molteplici e diversificate, in contesti, a loro volta caratterizzati da ricchezze, complessità e differenze, derivanti dai diversi servizi offerti dalle associazioni che cooperano attivamente. Siamo da sempre convinti che far rete sia l’unico diktat, l’unica modalità affinché i progetti trovino una fattiva realizzazione, al di là di un forte impegno personale e associativo.

E se nel nostro paese si sta sempre di più diffondendo la cattiva abitudine  del binge drinking (bere fuori pasto), allo stesso modo si dovrebbero diffondere reti, fatte di persone, associazioni, realtà che, pur mantenendo una vita propria, possano unirsi per dare al mondo del lavoro (in questo caso ai datori di lavoro), input, informazioni, progetti, risorse e tutto quanto possa “essere a tutela del datore di lavoro”.

CONFIDAL si pone quindi come obiettivo la condivisione delle esperienze e conoscenze, siano esse di tipo tecnico, scientifiche o organizzative personali, non solo per una sistematizzazione e valorizzazione delle esperienze di successo, ma affinché si possano garantire la stipula e la manutenzione dei “patti educativi all’interno delle aziende”.

Essere in grado di mappare bisogni, valutare gli interventi più efficaci da adottare all’interno delle aziende, tenendo conto delle esigenze dei singoli e sulla base dell’andamento di mercato, sono solo alcune tra le capacità dei professionisti che fanno parte della confederazione.

È solo tenendo conto di tutti questi fattori che si è capaci di individuare, raccogliere dando vita alle buone prassi da realizzare all’interno delle aziende.

Dal lavoro di progettazione, a quello della formazione, emerge una forte necessità di rilancio della riflessione, sull’aspetto della “informazione per far prevenzione” affinché si ragioni “a monte” e non solo “a valle”.

L’intervento della norma della sicurezza sul lavoro è visto, in molti casi, come una “toppa” sul buco creato dalle stesse istituzioni, come una “corsa al recupero degli ultimi”. Il risultato, in questo modo, è l’assenza di azioni “pensate per i penultimi” e la impossibilità di insegnare a ragionare sugli strumenti e le modalità di prevenzione, quale elemento strategico che abitua e consente alle aziende di tenere in sé, molti di coloro che, altrimenti sarebbero “persi”.

Confidal rappresenta una prima occasione di confronto per riflettere e provare ad immaginare una governance partecipata ed adeguatamente articolata. È necessario iniziare a ragionare su un doppio livello: da un lato una struttura – confederazione, di coordinamento centrale, dall’altro il coinvolgimento delle autonomie associative, che ne fanno parte.

Le azioni, quelle più efficaci, sono frutto di una partecipazione progettata e condivisa fra le associazioni costituendi la confederazione e i soci che ne fanno parte.

Il lavoro di prevenzione, di informazione, di diffusione di una cultura alla sicurezza rappresenta un campo tutto da coltivare e al quale occorre dedicare energie.

Si tratta di cogliere la sfida a monte degli infortuni, rendendo visibile che attraverso la riscrittura di buone prassi per ogni azienda (e non un mendace copia incolla), i datori di lavoro sono in grado di trovare soluzioni di prevenzione e protezione anche per quei rischi che, apparentemente, sono senza soluzione di continuità. Queste esperienze di coloro che fanno parte della confederazione sono esempi di “relazione protocollatatra i professionisti (formatori, tecnici, consulenti, ecc) e le aziende.

Cos’è una “relazione protocollata?” Un rapporto, ad esempio, di collaborazione fra un consulente -formatore e un’azienda, che consente di ricostruire e riscrivere un progetto formativo, basato su dei dati oggettivi (assenze per malattie, turn over, alta incidenza di infortuni, assenteismo, ecc), capace di guardare alle persone, e alle loro specificità.

Confidal è tutto questo.

 

Carlo Parlangeli, Presidente di A.D.L.I.