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Cleaning professionale: I rischi del settore | Valutazione rischi Bergamo

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Cleaning professionale: I rischi del settore

Valutazione rischi Bergamo

Contusioni, abrasioni, fratture e disturbi muscolari causati da carichi troppo pesanti: sono gli infortuni più frequenti che si verificano nel settore del cleaning. Tra gli incidenti ricorrenti anche il contatto o l’inalazione di prodotti chimici e gli infortuni a rischio biologico prevalentemente da aghi a sospetta contaminazione. I disturbi muscolo scheletrici costituiscono il 30-40 per cento delle malattie professionali del settore. Altre patologie frequenti riguardano la cute, quindi dermatiti, e l’apparato respiratorio, asma.

I rischi

I rischi per la sicurezza e la salute di chi lavora nel comparto sono diversi. Quelli dovuti a cadute dall’alto nell’uso di scale portatili, rischi di scivolamento, urto, schiacciamento, rischi di contatto con agenti chimici o biologici. E ancora movimentazione manuale di carichi e movimenti ripetitivi, e rischi da utilizzo di attrezzature elettriche.

Gli infortuni da caduta dalle scale portatili sono spesso gravi e legati a lavori svolti in quota: la pulizia dei vetri, delle tapparelle, degli androni, o durante piccole manutenzioni come il cambio di lampadine. Le scale, infatti, vengono utilizzate come luoghi dove i lavoratori svolgono attività che impegnano le due mani, spesso spostando o sollevando pesi o assumendo posture che facilitano lo sbilanciamento. Tra i danni più frequenti ci sono le abrasioni, le contusioni, le fratture agli arti inferiori e superiori.

L’infortunio più ricorrente nel settore delle pulizie è quello da “urto, schiacciamento”, in gran parte legato all’utilizzo di attrezzature ma anche agli spazi ridotti in cui, spesso, il lavoratore si trova ad operare. Rispetto al rischio di caduta per scivolamento i danni tipici sono le contusioni, le distorsioni e le lesioni agli arti superiori e inferiori.

E poi ci sono i prodotti chimici per la pulizia e la disinfezione ambientale utilizzati in questo settore. L’esposizione al rischio è correlata alla qualità dei prodotti utilizzati, alla frequenza e alla modalità con cui vengono impiegati. Nonché dalla presenza di adeguati ricambi d’aria nel luogo di lavoro.

Malattie della pelle

Dermatiti irritative e allergiche localizzate alle mani, ai polsi, agli avambracci. Si sviluppano nel tempo per esposizioni ripetute anche a quantità basse di sostanze irritanti, ed assumono la forma cronica con possibile remissione nel lungo periodo. La patologia più diffusa è sicuramente l’eczema alle mani che secondo alcuni studi rappresenta il 60-90 per cento di tutte le affezioni della pelle riscontrate nei lavoratori delle pulizie. Oltre alla presenza di sostanze irritanti vanno prese in considerazione le diminuite difese della pelle, dovute sia alle sostanze utilizzate, sia al fatto che i lavoratori delle pulizie stanno con le mani bagnate per lunghi periodi dell’orario di lavoro.

Malattie respiratorie e asma

Patologie irritative delle prime vie aeree, delle mucose e degli occhi. Secondo alcune ricerche risulta che l’incidenza di asma è cresciuta tra i lavoratori delle pulizie negli ultimi dieci anni. E che le pulizie sono la quarta attività lavorativa con il più alto rischio di asma dopo quelle degli agricoltori, dei verniciatori e degli operai dell’industria plastica. Il rischio di asma differisce a seconda delle attività e dei locali dove si svolgono i lavori di pulizia ed è più alto per le pulizie di cucine, le lucidature mobili e la pulizia dei sanitari. Questo si può spiegare con l’uso di spray e prodotti per pulire come clorina, sale di ammonio, composti di ammonio quaternario ed etanolammine.

 

A cura della redazione di Muletti Dappertutto

Un’esperienza diretta sui pesticidi e diserbanti | Valutazione Rischio Chimico

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Un’esperienza diretta sui pesticidi e diserbanti

Valutazione Rischio Chimico

Rutilio Segatori è nato a Milano nel 1963 e si è diplomato come perito industriale nel 1983. Per motivi famigliari si trasferisce in provincia di Cremona nel 1985 e qui, grazie alla patente di caldaista, ha iniziato a lavorare come manutentore in quest’ambito, come dipendente del comune di Robecco D’Oglio.

Fino al 1998, oltre alla manutenzione degli stabili e del depuratore, ho utilizzato sia diserbanti che pesticidi, a seconda dell’area da pulire o della struttura comunale da preservare. I diserbanti, distribuiti sui viali di ghiaia, erano utilizzati per mantenere “pulite” le aree verdi e i parchi, i prodotti granulari a lenta cessione venivano utilizzati sia nei cimiteri affinchè si potesse avere un maggior tempo di rilascio che sulle strade per mantenere puliti bordi e marciapiedi. Poi utilizzavo gli insetticidi contro mosche e zanzare sia presso la casa di riposo comunale che nelle scuole.

L’esposizione a diserbanti e a pesticidi, mi ha inevitabilmente causato dei problemi di salute. Ho consultato diversi medici, ma è solo grazie al dott. Luigi Mancini che siamo venuti a capo del problema: ero affetto da un blocco nel metabolismo dovuto all’atrazina e metabenzene. Ricordo che dissi al dott. Mancini che il problema emerso non poteva essere dovuto all’uso di diserbanti e pesticidi, in quanto noi operai, non solo eravamo in possesso delle abilitazioni necessarie per poterli usare (i patentini), ma che prima di entrare in contatto con dette sostanze, quindi in piena coscienza di ciò a cui ci esponevamo, indossavamo le protezioni necessarie e prendevamo le dovute precauzioni. Per queste ragioni proprio non capivo! Come potevo aver assorbito i principi attivi dei prodotti che utilizzavo? Il dottore mi fece notare una cosa molto semplice: “se non cresce l’erba e non ci sono insetti, vuol dire che il prodotto è presente ed agisce”. Quindi, noi operai, andando a lavorare in questi luoghi e sollevando le polveri o addirittura triturando l’erba secca, inevitabilmente respiravamo il prodotto, introducendolo così nel nostro corpo. Ero intossicato! Con l’aiuto dell’omeopatia impiegai un anno per liberarmi dell’atrazina e quasi due, per debellare il metabenzene. Proprio in quel periodo questi due principi attivi venivano eliminati dal mercato a favore del glifosate. A detta dei venditori del settore, si trattava di un prodotto rivoluzionario, a basso costo ed efficace. Sistemico perchè colpiva la radice delle erbe infestanti e selettivo perché lavorava solo sul DNA delle piante, risultando così innocuo per l’uomo. A distanza di 25 anni dalla sua comparsa in commercio, su larga scala, sta venendo a galla che si tratta di un prodotto altamente nocivo per l’uomo. I residui di glifosato infatti rimangono per lungo tempo nelle piante, ma soprattutto in quelle di mais e di grano. I trinciati di mais vengono mangiati dalle mucche che poi producono latte, il grano viene trasformato in farina: ecco spiegato perché molti bambini soffrono di intolleranze alimentari (generalmente al latte vaccino e alla pasta o ai prodotti derivati dalle farine). Ed il clima di certo non aiuta, anzi rende tutto più difficoltoso. Se pensiamo all’estate appena trascorsa, alla siccità causata dall’assenza di pioggia, non possiamo far altro che riflettere sull’alta concentrazione delle polveri che si sono disperse in aria, anche a causa di un utilizzo massivo e massiccio di macchine e mezzi agricoli sempre più veloci per le lavorazioni del terreno. I dati del 2015 dell’International Agency For Research On Cancer classificano i GLIFOSATE come cancerogeni sia per gli esseri umani che per gli animali (basti pensare quanti cani, che portiamo a fare le passeggiate nei campi e nel verde, soffrono di tumori perché annusano e toccano con il muso il terreno), mentre l’ESFA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) dichiara che il pesticida non è poi così pericoloso, non classificandolo come cancerogeno, ma che un uso improprio potrebbe causare dei danni agli occhi e potrebbe risultare tossico per gli ambienti acquatici. Peccato che queste informazioni si basino sui dati forniti dall’azienda che produce l’erbicida.

Di diverso parere sono i medici per l’ambiente ISDE (International Society of Doctors for the Environment), un’associazione non governativa che riunisce medici di varia nazionalità che mettono come problemi di tipo ecologico possono essere correlate a problematiche sanitarie. I medici di quest’ associazione dichiarano che una prolungata esposizione all’erbicida produce gravi malattie, sia che si tratti di agricoltori che vengono a contatto diretto con l’erbicida, sia che si tratti di consumatori che assumono alimenti trattati con glifosate. A causa di ciò, malattie come la SLA o il PARCHINSON sono in aumento. Assistiamo così a malesseri generali sia ai danni di alcuni calciatori che vanno a giocare sui prati di calcio trattati da erbicidi, o ad agricoltori che, durante il periodo di raccolta, soprattutto dei trinciati, accusano malattie più o meno gravi, che si accentuano maggiormente, quando sono a stretto contatto con il prodotto. Anche le persone che hanno la loro casa confinante con campi coltivati soprattutto a mais, accusano malori o malesseri, più o meno gravi. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) mette in guardia dagli effetti dannosi dei pesticidi e degli erbicidi, dichiarando che sono causa di morte per circa 200.000 persone al mondo. La Commissione Europea è chiamata ad esprimersi sul prolungamento o la revoca della licenza sull’uso del glifosate. Solo Francia, Italia, Austria, Lussemburgo, Belgio sono contrari all’uso del glifosate, mentre gli altri stati europei no. Si parla di una proroga di altri tre anni prima che venga presa una decisione definitiva. In Italia, alcuni venditori non danno più di uno o due litri al privato, alcuni comuni hanno vietato l’utilizzo di detti diserbi nelle aree urbane. In alcune regioni bisogna mantenere distanze di 20 metri dai confini del terreno, strade e fossi, in cui viene distribuito il prodotto. Alcune incentivano procedimenti alternativi come vapore e schiumogeno a base di prodotti naturali, oppure la pulizia meccanica delle erbe. Sembra quasi che qualcosa si muova. Non faccio parte né dell’ISDE, né dell’OMS, ma posso raccontarvi la storia dei miei amici/colleghi. Luigi è morto 6 anni fa con il fegato sciolto da un tumore e faceva il seppellitore. Roberto, che andrà in pensione a fine anno, 9 anni fa si sottoponeva ad un intervento di esportazione della milza, perché con un tumore. Luciano 7 anni fa, dopo appena una settimana dal suo pensionamento, riscontrava dai medici di avere gravi problemi alle valvole cardiache. Sergio, andato in pensione 8 anni fa, ulcera perforante e aneurisma al cuore. Stefano, andato in pensione 20 anni fa, aveva dei grossi problemi ai reni: sono già 7 anni che è morto. Saranno coincidenze, ma 5 operai su 6 hanno avuto problemi seri. Io sono riuscito a curami e sono riuscito ad eliminare queste tossine che si accumulano, in primis, nell’intestino, poi nel fegato, nel pancreas e nella milza. Quando si accumulano nella milza, che è il sacchetto dell’aspirapolvere del nostro corpo, e quindi si intasa, compaiono dolori articolari e tendiniti. Mi sono molto documentato in primo luogo perché dovevo disintossicarmi, ma soprattutto per capire gli effetti dannosi delle tossine aero disperse e contrastarne gli effetti sul mio corpo. Ho letto molti testi e ho cominciato a tenere un diario alimentare quotidiano: in questo modo mi sono fatto un’idea di quali sono i cibi che al mio organismo fanno male perché trattiene i veleni e ciò che fa bene e aiuta a smaltirli (come per esempio la malva, il rosmarino, il tarassaco, l’argilla) e quello che mi fa male (come il lievito, la farina, i formaggi ecc…). Ho impiegato vent’anni nello studio al contrasto ai veleni che ci circondano e per me è molto difficile raccontarlo in poche righe. Ad esempio, le piogge di questi ultimi giorni, sono benefiche perché, se le persone che vi circondano hanno iniziato a stare meglio, è perché si è abbassato il livello di polveri avvelenate disperse nell’aria che respiriamo. Una cosa è certa però: non ci sono pezzi d’aria in cui non si disperdano questi veleni, pertanto anche coloro che li progettano, li producono e li vendono li respirano. Questo per far capire come questi veleni che vanno nell’aria li respiriamo tutti, anche quelli che li producono e li vendono.

Mi auguro si cominci realmente a fare qualcosa, affinché, la salute, DIVENTI UN DIRITTO PER TUTTI.

 

Per. Ind. Rutilio Segatori, Dipendente del comune di Robecco D’Oglio

Glifosato: L’Unione Europea fa slittare nuovamente una decisione. L’Italia preferisce non aspettare. | Valutazione rischio chimico

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Glifosato: L’Unione Europea fa slittare nuovamente una decisione. L’Italia preferisce non aspettare.

Valutazione rischio chimico

Il Glifosato, uno dei pesticidi più utilizzati al mondo, è attualmente al centro di un acceso dibattito politico e scientifico sull’autorizzazione al suo utilizzo, che sta coinvolgendo i 28 paesi dell’Unione Europea e che ancora non ha trovato una soluzione chiara e definitiva.

Non rassicurano i pareri scientifici discordanti sui rischi per la salute che il glifosato dovrebbe produrre sull’uomo, ma è certo che un vasto movimento di cittadini europei e associazioni a tutela dei consumatori si è già fortemente schierato contro l’utilizzo di questo diserbante.

A scoprire le proprietà erbicide del glifosato fu nel 1970 il chimico della Monsanto John E. Franz, il pesticida venne messo in commercio a partire dal 1974 rimanendo un’esclusiva della Monsanto fino agli anni 2000.

Oggi chiunque può produrre glifosato ed in effetti in Europa si contano ben 14 aziende produttrici.

Il glifosato è in assoluto l’erbicida più utilizzato nel mondo per la cura di spazi verdi e giardini, ma è in agricoltura che si riscontra il suo maggiore utilizzo, in effetti solo nel 2014 sono stati utilizzati 9 miliardi di kg di glifosato nel 30% dei campi del mondo.

Se pensiamo al grano poi, il glifosato viene utilizzato anche come disseccante, irrorato prima della raccolta del grano, permette una veloce asciugatura della spiga e quindi una raccolta anticipata del grano fino a due settimane.

La domanda allarmante è quanto glifosato arrivi sulle nostre tavole e se dobbiamo preoccuparci per la nostra salute.

Il dibattito scientifico e politico sul glifosato è molto acceso e a tratti contraddittorio, nel marzo 2015 l’OMS, l’Organizzazione Mondiale Sanità ha classificato il glifosato come probabile cancerogeno per l’uomo, dall’altra parte però, c’è il parere dell’EFSA, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, che qualche mese dopo il parere dell’OMS, ha assolto il glifosato definendolo probabilmente non cancerogeno e limitandone solo la dose giornaliera a 0,5 mg per kg di peso corporeo.

Nel mezzo di tutto questo c’è poi la Commissione Europea che a giugno del 2016 ha scelto di prorogare l’utilizzo del glifosato di 18 mesi, ma contestualmente ha chiesto agli stati membri di limitare l’utilizzo del diserbante nei luoghi pubblici.

Mentre l’Unione Europea tentenna e  non prende una chiara posizione sul glifosato, le Associazioni di consumatori di diversi paesi europei, compresa l’Italia, non perdono tempo, commissionando una serie di test sugli alimenti per rintracciare la presenza di residui di glifosato.

I timori dei consumatori si concentrano su alimenti di uso comune come biscotti, farina, fette biscottate e pasta, senza contare la preoccupazione per il grano di importazione da Canada e Stati uniti, dove viene comunemente utilizzato il glifosato nel trattamento del grano nella fase di pre raccolta.

E il grano italiano? A tutelare la salute dei cittadini italiani è intervenuto il Ministero delle Politiche Agricole che si schierato contro la conferma dell’autorizzazione all’utilizzo del diserbante in Europa e indipendentemente dall’opinione e dagli esiti del confronto europeo ha lanciato un progetto a tutela delle produzioni italiane strutturando il piano nazionale Glifosato Zero entro il 2020.

Tornando agli sviluppi in sede europea, la Commissione, ha proposto un rinnovo parziale, per 12-18 mesi, cioè fino alla fine del 2017, quando è previsto che l’Echa (l’Agenzia europea per le sostanze chimiche) completi la valutazione degli effetti del glifosato sulla salute umana e l’ambiente.

L’autorizzazione alla vendita del glifosato nell’Ue scadeva a fine giugno, ma nonostante lo scetticismo generale dei governi sul controverso composto chimico, i forti dubbi sulla sua sicurezza per la salute e la mobilitazione di milioni di cittadini europei, la Commissione Europea ha deciso di prolungare di 18 mesi l’autorizzazione per l’uso del glifosato ignorando la voce dei cittadini e i pareri della comunità scientifica.

Forte delusione per le Associazioni ambientaliste e Ong in attesa di un diverso risultato che tenesse conto della salute e della sicurezza dei cittadini europei.

Il Commissario Ue Vytens Andriukaitis annunciando la proroga delle concessioni per l’erbicida ha voluto giustificare la decisione come un «obbligo giuridico» per la Commissione.

A favore della proposta si sono schierati 19 stati membri; altri 7, tra i quali l’Italia, si sono astenuti, mentre Malta e Francia hanno votato contro.

Entro la fine del 2017 è comunque atteso il parere dell’Agenzia per la chimica europea (Echa), che si pronuncerà sulla pericolosità del prodotto.

La speranza è che si arrivi ad un parere certo ed indipendente sulla sicurezza del glifosato che permetta all’Unione Europea di raggiungere una decisione chiara e definitiva sulle modalità di utilizzo.

 

Dott.ssa Laura Faggiotto, Direttrice di Punto di Vista

Diritto d’accesso di un lavoratore al DVR | Documento Valutazione Rischi Bergamo

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Diritto d’accesso di un lavoratore al DVR

Commento alla pronuncia T.A.R. Abruzzo, Sez. 1, 12 luglio 2012, n. 467

Documento Valutazione Rischi Bergamo

Il ricorrente, lavoratore dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale Abruzzo e Molise di Teramo, ha presentato alla predetta amministrazione istanza di accesso alla documentazione inerente il processo di verifica della valutazione del rischio amianto sul luogo di lavoro. La richiesta è stata mossa dal ricorrente, che, dopo aver osservato lo stato di degrado della copertura in amianto della struttura del luogo di lavoro, ha sottolineato che in caso di pioggia lo scioglimento della matrice cementizia avrebbe comportato il fluire delle fibre d’amianto all’interno dei manufatti. L’istanza è stata respinta dalla predetta amministrazione, ai sensi dell’art. 24[1] Legge n. 241 del 1990, inerente il procedimento amministrativo e il diritto di accesso ai documenti amministrativi. Il ricorrente ha chiamato dunque in giudizio -avanti il Giudice Amministrativo- l’Istituto, nella figura del Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione, eccependo il diniego di accesso agli atti amministrativi relativi alla valutazione del rischio amianto sul luogo di lavoro.

Il T.A.R., in composizione collegiale, ha accolto la domanda.

Il ricorso in esame verte principalmente sui precetti di cui all’art. 22[2] Legge n. 241 del 1990, in materia di trasparenza e accesso ai documenti amministrativi. Ha sostenuto la difesa del ricorrente che detta normativa troverebbe applicazione al caso di specie nonostante specifica legislazione giuslavorista (D. Lgs. n. 81 del 2008: “Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro”) riservi al solo Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) il diritto a visionare le informazioni contenute all’interno del documento di valutazione dei rischi (DVR).

Controparte ex adverso ha riportato in sua difesa i contenuti di cui all’art. 50[3] comma 1, lettera e) e comma 4 D. Lgs. 81/2008, secondo i quali il RSPP “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative (…)” nonchè “Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su sua richiesta e per l’espletamento della sua funzione, riceve copia del documento di cui all’art. 17 comma 1 lettera a)”.

In base a quanto disciplinato dalla nota n. 52/2008 del Ministero del Lavoro, la PA ha inoltre sostenuto che il solo RLS ha possibilità di visione del DVR mediante consegna su supporto informatico, utilizzabile però su apposito terminale presso la sede dell’Istituto[4]. Si badi che la nota ministeriale è scaturita da un Interpello promosso dall’associazione dei datori di lavoro con il quale l’amministrazione ha affermato che, non essendo prevista alcuna formalità per la consegna del documento, è ammissibile la consegna dello stesso su supporto informatico, anche se utilizzabile solo su terminale video messo a disposizione all’interno dei locali aziendali.

Sulla scorta dell’art. 22 Legge n. 241 del 1990, il T.A.R., con la pronuncia in esame, ha inteso rafforzare il principio di trasparenza della PA dall’accezione stessa di tale concetto, ripreso dal legislatore pure con l’art. 11[5] D. Lgs. n. 150 del 2009, secondo cui la trasparenza va “intesa come accessibilità totale (…) dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti”. Trasparenza quindi come livello essenziale delle prestazioni pubblicistiche, da intendere quale accessibilità totale ad informazioni dell’organizzazione amministrativa, che nel dettaglio concernono dati sulla salubrità e adeguatezza del luogo di lavoro. Il T.A.R. ha ritenuto che tali caratteristiche afferiscano altresì all’art. 2087 Codice Civile, secondo cui il datore di lavoro ha l’obbligo “di attenersi al principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile” sul luogo di lavoro.

Il T.A.R. ha sostenuto quindi che il principio di specialità invocato dalla PA, ovvero l’applicazione della legislazione giuslavorista di cui al D. Lgs. 81/2008, non sussista. Trattandosi di rapporto di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione, al ricorrente spetta l’accesso ai dati richiesti ex art. 23[6] Legge n. 241 del 1990 in materia di diritto di accesso verso le PA.

In particolare, il ricorrente ha mosso istanza di accesso per la conoscenza dei dati contenuti nel documento di valutazione dei rischi relativi l’insalubrità ambientale e il rischio contaminazione per la presenza di fibre d’amianto in copertura, e non di accesso all’intero DVR. Tali dati, ha sottolineato il T.A.R., possono essere estrapolati dal documento e devono essere resi noti ai lavoratori che ne facciano richiesta, non solo dipendenti di una PA ma anche dipendenti di un ente privato, quale diritto a conoscere il grado di sicurezza dell’ambiente di lavoro. Sebbene il legislatore, con il combinato disposto di cui agli artt. 4 e 5 D. Lgs. 6 febbraio 2007 (attuazione della direttiva 2004/14/CE), imponga al rappresentante dei lavoratori il riserbo verso informazioni segrete riferitegli dal datore di lavoro, il Giudice Amministrativo, nel caso in esame, ha ritenuto le informazioni relative alla salubrità e sicurezza dell’ambiente di lavoro escluse dal campo di segretezza. Tale esegesi è in linea con i principi di tutela della salute e della dignità del cittadino in quanto lavoratore, tutelati dalla Carta Costituzionale a mezzo dell’art. 32 “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” e 35 “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”.

Trattandosi di informazioni relative alla salubrità e sicurezza ambientale, il T.A.R. ha reputato la richiesta del ricorrente meritevole di accoglimento in applicazione della disciplina del diritto ambientale di cui al D. Lgs. n. 195 del 2005 per cui tali dati sono accessibili a tutti coloro ne facciano richiesta: in particolare “lo stato dell’ambiente[7]” viene inteso quale il luogo di lavoro, nel quale il dipendente ha osservato il degrado della copertura della struttura, dovuto a “fattori quali sostanze (…) ed altri rilasci nell’ambiente che incidono o possono incidere sugli elementi dell’ambiente[8]” e compromettere “lo stato della salute e della sicurezza umana[9]” in relazione alle possibili filtrazioni delle fibre d’amianto nei manufatti, per lo scioglimento della matrice cementizia dovute alla pioggia.

Il ricorrente, secondo la pronuncia in commento, ha dunque diritto di avere accesso all’informazione ambientale che concerne “le misure o le attività finalizzate a proteggere i suddetti elementi[10]”, ovvero a conoscere lo stato di insalubrità ambientale del luogo di lavoro, espressa dalla valutazione del rischio amianto riportata nel DVR.

Alla luce di quanto esposto, il Giudice Amministrativo ha evidenziato che il rapporto contrattuale che lega il datore di lavoro e il ricorrente va a rafforzare la legittimazione dell’istanza mossa dal lavoratore: essendo i dati ambientali accessibili a chiunque ne faccia richiesta, anche senza dichiarazione esplicita del motivo d’interesse, ancor più legittima è l’istanza del lavoratore che, avendo anche motivato l’istanza di accesso, presta il proprio operato presso il luogo di lavoro a rischio contaminazione.

Il T.A.R. quindi, in accoglimento al ricorso, ha disposto l’annullamento dell’illegittimo diniego, condannando l’amministrazione a consentire l’accesso alla documentazione relativa al rischio amianto sul luogo di lavoro del ricorrente.

L’accesso ai documenti amministrativi, e nel caso particolare, al documento di valutazione dei rischi, è stato argomento di dibattito con l’emanazione del D. Lgs. 106/2009, che ha introdotto nuove regole di accesso ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Tale disciplina è stata applicata a numerosi procedimenti giudiziari, vista la diffusa opposizione delle imprese alla consegna del materiale di tale documento ai RLS. La giurisprudenza si è spesso pronunciata sulla questione, ritenendo illegittimo il rifiuto di consegna del documento di valutazione dei rischi (Tribunale di Pisa, 7 marzo 2003: “È, pertanto, da ritenersi antisindacale la condotta del datore di lavoro che abbia omesso, nonostante le reiterate richieste da parte del rappresentante per la sicurezza, di fornirgli i documenti e le informazioni riguardanti il piano per la sicurezza, la valutazione dei rischi, il parere del medico competente ed ogni altra comunicazione relativa ai provvedimenti che il datore intendeva adottare ai fini dell’adeguamento dei locali di servizio”). In tal modo si è affermato il pieno diritto al RLS ad avere copia del DVR, rigettando la tesi difensiva del datore di lavoro circa la presunta violazione, in caso di consegna del documento, del segreto aziendale (Tribunale di Brescia, 18 ottobre 2006; Corte d’Appello di Brescia, 27 settembre 2007, n. 414).

Il T.A.R. Sicilia (13 maggio 2003, n. 799) ha inoltre affermato, con riferimento alla pubblica amministrazione, che non solo i RLS ma tutti i dipendenti hanno diritto di ricevere copia del DVR in base al diritto di accesso agli atti amministrativi riconosciuto dalla Legge n. 241 del 1990, in quanto documento inerente ad interessi essenziali della persona. Tale pronuncia, in particolare, verte su caso analogo a quello in commento. I giudici amministrativi hanno difatti accolto un ricorso presentato da una docente, che si era vista rifiutare una domanda di accesso agli atti, riguardante la documentazione che viene predisposta dal dirigente scolastico per valutare i rischi.

Nonostante la riservatezza del DVR, il T.A.R. ha ritenuto che questa prescrizione non possa pregiudicare gli effetti della legge sulla trasparenza amministrativa, che dispone la facoltà di accedere agli atti amministrativi da parte di tutti i soggetti portatori di interesse giuridico qualificato, quale il lavoratore in servizio nell’unità produttiva a cui si riferisce il documento.

La sentenza in commento trova un precedente conforme nella pronuncia del T.A.R. Sicilia 13 maggio 2003, n. 799, secondo la quale tutti i dipendenti, e non solo i RLS, hanno diritto di ricevere copia del DVR in base al diritto di accesso agli atti amministrativi, in quanto trattasi di documento inerente interessi essenziali della persona. Recita l’art. 18[11] comma i) D. Lgs. 81/2008, che il datore di lavoro deve “informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione” a tutela della salute e sicurezza nel luoghi di lavoro. Nel momento in cui il ricorrente ha mosso l’istanza di accesso alla documentazione relativa alla valutazione del rischio amianto per evidente stato di degrado della copertura, il datore di lavoro, oltre a formalizzare il diniego di accesso, nulla ha argomentato sulla possibile esistenza del rischio, in violazione dell’art. 18 comma 3 della citata normativa, per cui il datore di lavoro ha l’obbligo di “prevedere interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare (…) la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni”. Il Giudice Amministrativo ha qualificato dunque come pienamente legittima la richiesta del lavoratore di ricevere copia del documento di valutazione dei rischi nella sola parte della valutazione del rischio amianto, con conseguente obbligo della PA di consegnare al lavoratore tutte le informazioni richieste.

L’informazione a cui il ricorrente ha chiesto accesso, correttamente qualificata dal T.A.R. quale informazione di carattere ambientale, e dunque disciplinata dalla Legge n. 241 del 1990, non può essere negata al soggetto portatore di interesse giuridico qualificato, quale è il ricorrente, essendo necessaria ad assicurare la salubrità del luogo di lavoro e la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Per questo motivo il D. Lgs. 81/2008, che prevede la consegna della copia del DVR al solo rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, non è applicabile nella fattispecie in esame, in quanto la normativa sancisce, con l’art. 36[12] comma 2 lettera a), che “il datore di lavoro provvede che ciascun lavoratore riceva una adeguata informazione sui rischi specifici a cui è esposto”. Inoltre, la predetta disciplina, non gode di alcun principio di specialità nei confronti della Legge n. 241/1990.

Nella prassi, difficilmente le organizzazioni dei datori di lavoro si conformano alle prescrizioni di cui all’art. 50[13] D. Lgs. 81/2008, secondo il quale il rappresentante dei lavoratori “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative (…)” e “Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su sua richiesta e per l’espletamento della sua funzione, riceve copia del documento di cui all’art. 17 comma 1 lettera a)”. Di tal guisa, Confindustria ha emanato una circolare interpretativa volta a limitare gravemente il diritto di accesso del RLS al DVR, stabilendo che la consegna debba essere limitata alla sola parte del documento relativa agli aspetti di specifico interesse evidenziati nella richiesta, e che la consultazione del documento possa avvenire solo all’interno del perimetro aziendale, con riconsegna al termine della lettura. La nota tuttavia appare inconsistente, in quanto lo stesso D. Lgs. 81/2008, relativamente all’obbligo di consegna del DVR, omette di precisare le relative modalità, con l’unica limitazione di non portare il documento al di fuori dell’azienda.

Relativamente al predetto parametro, il Tribunale di Milano, con sentenza del 29 gennaio 2010, si è pronunciato sulle modalità di consultazione del DVR, evidenziando che l’obbligo di consegna da parte del datore di lavoro e il diritto del RLS di ricevere una copia del DVR non è discutibile. Quanto alle modalità di adempimento, che secondo la volontà del legislatore può avvenire sia in forma cartacea che su supporto informatico, il Tribunale ha affermato il principio per cui, trattandosi di modalità alternative, la scelta non può che essere rimessa al RLS, che dunque avrà diritto di stabilire in quale formato ottenere copia del DVR. Difatti l’obbligo di consegna “non può essere obliterato attraverso una semplice messa a disposizione o consultazione di un documento solo su supporto informatico o su computer aziendale”. Inoltre, il datore di lavoro deve consentire la consultazione del documento “per tutto il tempo che sarà necessario, tenuto conto della eventuale complessità del documento stesso”, fermo invece il limite di consultazione del DVR all’interno dell’azienda, ex D. Lgs. 106/2009.

Può dunque ritenersi precluso il divieto di accesso agli atti nel caso in esame, se non per questioni di segreto industriale, non solo le figure principali che lo condividono, ma a tutto il SPP – Servizio Prevenzione e Protezione (art. 2[14], comma 1, lettera l, del D. Lgs. 81/2008) inteso come “insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni o interni all’azienda finalizzati all’attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori”.

Sarebbe auspicabile, ai fini del costante miglioramento della professionalità e della qualità della vita sul lavoro, che ogni lavoratore venisse inserito in quell’insieme di persone, mezzi e sistemi finalizzati all’attività di prevenzione, obiettivo peraltro sancito dell’art. 20[15], comma 1 del D. Lgs. 81/2008 che prevede che i lavoratori debbano “contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro” ed ancora, in caso di eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza “adoperarsi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità (…) per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave o incombente”.

È fondamentale quindi che il lavoratore ricevuta formazione, informazione ed addestramento, abbia conoscenza degli argomenti esplicitati nel DVR in relazione alla valutazione dei rischi a cui risulta esposto. Basti pensare all’eventualità che lo stesso possa essere chiamato a svolgere un ruolo attivo per quanto riguarda la tutela di salute e sicurezza sul luogo di lavoro.

Tale concezione è in linea con quanto disciplinato dalla Legge 20 maggio 1970, n. 300, il cui art. 9[16] a fronte della quale: “I lavoratori, mediante loro rappresentanze” – RLS – “hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica”.

In conclusione, la qualità della vita nell’ambiente di lavoro può essere garantita da una partecipazione equilibrata del lavoratore alle tematiche di salute e sicurezza del luogo di lavoro, e ciò non può prescindere da un atteggiamento propositivo e collaborativo, sia da parte della direzione che da quella dei dipendenti.

[1] “Esclusione dal diritto di accesso”

[2] “Definizioni e principi in materia di accesso”

[3] “Attribuzioni del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”

[4] Caso Esselunga

[5] “Trasparenza”

[6] “Ambito di applicazione del diritto di accesso”

[7] D. Lgs. N° 195 del 2005, art. 2 lettera a), sub 1.

[8] D. Lgs. N° 195 del 2005, art. 2 lettera a), sub 2.

[9] D. Lgs. N° 195 del 2005, art. 2 lettera a), sub 6.

[10] D. Lgs. n. 195 del 2005, art. 2  lettera a), sub 3

[11] “Obblighi del datore di lavoro e del dirigente”

[12] “Informazione ai lavoratori”

[13] “Attribuzioni del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”

[14] “Definizioni”

[15] “Obblighi dei lavoratori”

[16] “Tutela della salute e dell’integrità fisica”

 

Il Documento di Valutazione dei Rischi | Consulente Sicurezza Brescia

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Il Documento di Valutazione dei Rischi

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Il Documento di Valutazione dei Rischi è lo strumento attraverso il quale il datore di lavoro effettua “la valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza”[1].

Il Documento di Valutazione dei Rischi deve essere redatto entro 90 giorni dall’inizio di ogni attività e deve essere rivisto, ai sensi dell’articolo 29[2], comma 3, sotto responsabilità del datore di lavoro, nel momento in cui si dovessero verificare determinate circostanze come:

– modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro che siano significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori;

– evoluzioni tecniche, della prevenzione o della protezione;

– infortuni significativi (superiori a 40 giorni di prognosi);

– necessità evidenziate dalla sorveglianza sanitaria.

In tal caso il datore di lavoro ha 30 giorni per rielaborare il DVR ed essere così in regola con il dettame normativo. I 30 giorni scattano dal momento in cui si verificano le circostanze sopra elencate.

Si precisa che il tenore sanzionatorio in sede processuale può essere modificato in senso peggiorativo dai giudici, i quali possono comminare la pena detentiva dell’arresto da quattro a otto mesi. Tale circostanza si può verificare nel caso in cui la mancata elaborazione del DVR venga commessa in:

  • aziende industriali ai sensi del D. Lgs. n. 334/1999[3], aziende con oltre 200 lavoratori, industrie estrattive con oltre 50 lavoratori;
  • centrali termoelettriche;
  • aziende di fabbricazione e deposito esplosivi, polveri e munizioni;
  • strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori;
  • aziende in cui si svolgono attività che espongono i lavoratori a rischi biologici ex art. 268[4], comma 1, lettera c e d, da atmosfere esplosive, cancerogeni mutageni e da attività di manutenzione, rimozione smaltimento e bonifica di amianto;
  • attività ex titolo IV[5] del D. Lgs. n. 81/2008 (cantieri temporanei o mobili) a cui partecipino più imprese e ci sia un’entità presunta di lavoro non inferiore a 200 uomini-giorno.

È utile sottolineare anche che la redazione del DVR è un adempimento oggetto di frequenti verifiche da parte del personale ispettivo in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. La “vigilanza” in senso lato viene svolta discrezionalmente da tutti i soggetti indicati nell’art. 13[6] del Testo Unico, tra i quali si distinguono sicuramente le ASL (Aziende Sanitarie Locali) per la mole di interventi; il più delle volte tali controlli seguono al verificarsi di infortuni e incidenti, a segnalazioni di altri enti preposti alla vigilanza e anche a segnalazioni e richieste di intervento fatte tanto da personale interno all’azienda quanto da personale esterno.

Posto quindi che la mancata adozione del DVR comporta una rilevante sanzione, vediamo quali sono i documenti di valutazione di cui deve obbligatoriamente dotarsi il datore di lavoro.

Innanzitutto, il Testo Unico definisce l’oggetto della valutazione dei rischi, stabilendo che essa “deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro[7].

In base, poi, al numero di lavoratori impiegati nel luogo di lavoro, la normativa prevede differenti livelli di valutazione che si concretizzano in differenti tipologie di documenti.

Ogni azienda che impiega almeno un lavoratore, infatti, è obbligata alla valutazione del rischio stress lavoro correlato e all’elaborazione del relativo documento: DVR stress lavoro correlato.

Per la valutazione dei restanti rischi, poi, è necessario fare riferimento al numero di lavoratori occupati: le aziende che occupano fino a 10 lavoratori (ad esclusione delle sole aziende industriali a rischio rilevante, centrali termoelettriche, impianti ed installazioni nucleari, aziende per la fabbricazione ed il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni) sono obbligate a predisporre il documento di valutazione sulla base delle procedure standardizzate[8] approvate dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e sicurezza sul lavoro in data 16 maggio 2012, elaborando quindi una sorta di “DVR semplificato”; le aziende con più di 10 lavoratori, invece, sono tenute ad elaborare un documento di valutazione più approfondito, contenente tutti i rischi specifici presenti nei luoghi di lavoro, compresi quelli relativi alla presenza di determinate categorie di lavoratori (lavoratrici in gravidanza e puerpere, minorenni, disabili, provenienti da altri Paesi). Ad eccezione di quanto detto in precedenza, le stesse procedure standardizzate approvate dalla Commissione Consultiva danno la possibilità di utilizzare il “DVR semplificato” anche alle aziende sopra i 10 lavoratori ma comunque entro i 50[9]; sopra i 50 lavoratori, invece, non è in alcun modo possibile avvalersi del modello semplificato.

Ricapitolando, ai fini della valutazione dei rischi, il datore di lavoro sia in sede di costituzione di nuova impresa sia in sede di variazione del numero dei lavoratori e di modifica sostanziale di cicli produttivi e materiali impiegati, deve:

  1. determinare correttamente l’organico aziendale, in quanto nella somma del personale occupato dovranno escludersi tutta una serie di lavoratori (a titolo esemplificativo: collaboratori familiari, tirocinanti, i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo determinato in sostituzione di altri prestatori di lavoro assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro, lavoratori che svolgono prestazioni occasionali di tipo accessorio, lavoratori utilizzati nei lavori socialmente utili, i lavoratori autonomi, i collaboratori coordinati e continuativi e i lavoratori a progetto, i lavoratori in prova, ecc.);
  2. aggiornare le valutazioni dei rischi per mansioni omogenee o singoli lavoratori in base alla tipologia di azienda o alle modifiche dell’attività svolta;
  3. aggiornare il Documento di Valutazione dei Rischi nei casi prescritti.

 

[1] Art. 2, lettera q, D. Lgs. n. 81/2008

[2]Modalità di effettuazione della valutazione dei rischi

[3]Attuazione della direttiva 96/82/CE relativa al controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose

[4]Classificazione degli agenti biologici

[5]Cantieri temporanei o mobili

[6]Vigilanza

[7] Art. 28, comma 1, D. Lgs. n. 81/2008

[8] Art. 29, comma 5, D. Lgs. n. 81/2008

[9] Art. 29, comma 6, D. Lgs. n. 81/2008