SICUREZZA LAVORO

Cleaning professionale: I rischi del settore | Valutazione rischi Bergamo

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Cleaning professionale: I rischi del settore

Valutazione rischi Bergamo

Contusioni, abrasioni, fratture e disturbi muscolari causati da carichi troppo pesanti: sono gli infortuni più frequenti che si verificano nel settore del cleaning. Tra gli incidenti ricorrenti anche il contatto o l’inalazione di prodotti chimici e gli infortuni a rischio biologico prevalentemente da aghi a sospetta contaminazione. I disturbi muscolo scheletrici costituiscono il 30-40 per cento delle malattie professionali del settore. Altre patologie frequenti riguardano la cute, quindi dermatiti, e l’apparato respiratorio, asma.

I rischi

I rischi per la sicurezza e la salute di chi lavora nel comparto sono diversi. Quelli dovuti a cadute dall’alto nell’uso di scale portatili, rischi di scivolamento, urto, schiacciamento, rischi di contatto con agenti chimici o biologici. E ancora movimentazione manuale di carichi e movimenti ripetitivi, e rischi da utilizzo di attrezzature elettriche.

Gli infortuni da caduta dalle scale portatili sono spesso gravi e legati a lavori svolti in quota: la pulizia dei vetri, delle tapparelle, degli androni, o durante piccole manutenzioni come il cambio di lampadine. Le scale, infatti, vengono utilizzate come luoghi dove i lavoratori svolgono attività che impegnano le due mani, spesso spostando o sollevando pesi o assumendo posture che facilitano lo sbilanciamento. Tra i danni più frequenti ci sono le abrasioni, le contusioni, le fratture agli arti inferiori e superiori.

L’infortunio più ricorrente nel settore delle pulizie è quello da “urto, schiacciamento”, in gran parte legato all’utilizzo di attrezzature ma anche agli spazi ridotti in cui, spesso, il lavoratore si trova ad operare. Rispetto al rischio di caduta per scivolamento i danni tipici sono le contusioni, le distorsioni e le lesioni agli arti superiori e inferiori.

E poi ci sono i prodotti chimici per la pulizia e la disinfezione ambientale utilizzati in questo settore. L’esposizione al rischio è correlata alla qualità dei prodotti utilizzati, alla frequenza e alla modalità con cui vengono impiegati. Nonché dalla presenza di adeguati ricambi d’aria nel luogo di lavoro.

Malattie della pelle

Dermatiti irritative e allergiche localizzate alle mani, ai polsi, agli avambracci. Si sviluppano nel tempo per esposizioni ripetute anche a quantità basse di sostanze irritanti, ed assumono la forma cronica con possibile remissione nel lungo periodo. La patologia più diffusa è sicuramente l’eczema alle mani che secondo alcuni studi rappresenta il 60-90 per cento di tutte le affezioni della pelle riscontrate nei lavoratori delle pulizie. Oltre alla presenza di sostanze irritanti vanno prese in considerazione le diminuite difese della pelle, dovute sia alle sostanze utilizzate, sia al fatto che i lavoratori delle pulizie stanno con le mani bagnate per lunghi periodi dell’orario di lavoro.

Malattie respiratorie e asma

Patologie irritative delle prime vie aeree, delle mucose e degli occhi. Secondo alcune ricerche risulta che l’incidenza di asma è cresciuta tra i lavoratori delle pulizie negli ultimi dieci anni. E che le pulizie sono la quarta attività lavorativa con il più alto rischio di asma dopo quelle degli agricoltori, dei verniciatori e degli operai dell’industria plastica. Il rischio di asma differisce a seconda delle attività e dei locali dove si svolgono i lavori di pulizia ed è più alto per le pulizie di cucine, le lucidature mobili e la pulizia dei sanitari. Questo si può spiegare con l’uso di spray e prodotti per pulire come clorina, sale di ammonio, composti di ammonio quaternario ed etanolammine.

 

A cura della redazione di Muletti Dappertutto

Imprese ed associazioni insieme per un 2019 ricco di novità | Corsi Sicurezza Lavoro Bergamo

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Imprese ed associazioni insieme per un 2019 ricco di novità

Corsi Sicurezza Lavoro Bergamo

Venezia, 14 Dicembre 2018 – Si è concluso nei migliori dei modi il Meeting Nazionale 2018 della Fondazione Asso.Safe. L’incontro ha avuto come protagonisti nomi di spicco dell’associazionismo e delle realtà imprenditoriali del paese ed è stata l’occasione per valutare i risultati del 2018 e presentare le prospettive per il 2019. L’incontro tra le esigenze delle aziende e le risposte delle associazioni, attraverso i numerosi accordi intersindacali, è stata al centro dell’incontro con la presenza di una importante rappresentanza da un lato delle aziende che da anni lavorano con la Fondazione Asso.Safe e A.D.L.I. e dall’altra una nutrita rappresentanza dell’associazione Federlavoro che di recente ha stipulato un accordo di collaborazione con la Fondazione Asso.Safe per una maggiore diffusione della cultura della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.

La presenza all’evento di rappresentanti delle autorità, in particolar modo del sindaco di Santa Maria di Sala Nicola Fragomeni e di Crisitano Cafini, rappresentante del Sindacato di Polizia S.I.A.P., hanno arricchito maggiormente di prestigio un incontro che aveva anche lo scopo di avvicinare istituzioni e il mondo delle imprese.

Il Meeting Nazionale è stata anche la migliore cornice per presentare i due nuovi testimonial scelti dalla Fondazione Asso.Safe per le campagne previste nel 2019: Italo Screpanti, concorrente di Masterchef Italia 7, ex comandante di volo Alitalia, testimonial della campagna a favore dell’igiene alimentare ed incentivazione all’utilizzo del sistema H.A.C.C.P., e la Campionessa Mondiale di Muay Thai, Anna Marie Turcin, che a partire da Febbraio 2019 si occuperà della nuova campagna per l’autodifesa delle donne finanziata dalla Fondazione Asso.Safe con il patrocinio del Comune di Santa Maria di Sala (VE).

L’incontro ha poi visto susseguirsi con rapidi ma efficaci interventi inerenti i risultati appena conseguiti da A.D.L.I., attraverso la voce del Presidente Carlo Parlangeli, e dalla Fondazione Asso.Safe, rappresentata per l’occasione dall’A.D. Dott.ssa Giuseppina Filieri. Durante il loro intervento sono stati esposti i risultati del 2018 evidenziando la crescita costante che ha visto protagoniste entrambe le associazioni.

Sono quindi intervenuti, in rappresentanza del mondo dell’associazionismo il Presidente di Federlavoro Dott. Bertino Trolese, il Dott. Giuseppe Ligotti, sempre in rappresentanza di Federlavoro, il Dott. Gianpaolo Basile, responsabile di Fonditalia e inoltre sempre in nome della Fondazione Asso.Safe sono intervenuti Alberto Faggionato, presentando le novità 2019 di 81check.it, servizio dedicato alla realizzazione dei documenti di valutazione dei rischi e quest’anno abilitato anche per la realizzazione dei documenti inerenti il nuovo GDPR 2016/679 sulla privacy e il Dott. Simone Ascolese per presentare la nuova Associazione Europea dei Professionisti e delle Imprese A.E.P.I. di cui A.D.L.I. fa parte.

In rappresentanza delle imprese sono intervenuti, l’Ing. Sergio Muller, esperto in certificazioni, e il Dott. Alberto Minarelli, che ha illustrato l’evoluzione dei sistemi D.P.I. nell’ultimo secolo.

Dott.ssa Laura Faggiotto

Patologie cardiache e respiratorie. Chi sono i lavoratori più esposti e come si manifestano. | DVR Bergamo

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Patologie cardiache e respiratorie. Chi sono i lavoratori più esposti e come si manifestano.

DVR Bergamo

Il polmone rappresenta l’organo più esposto ai tossici professionali costituendo inoltre la principale via di assorbimento di molte sostanze aerodisperse in ambito lavorativo.

Per capire la ragione dell’importanza dell’apparato respiratorio in ambito lavorativo basti pensare che i nostri polmoni sono costituiti da oltre 120.000 alveoli (piccole “sacchette” dove l’aria e le sostanze tossiche entrano in contatto con i capillari) che hanno una superficie interna complessiva di circa 70 mq, paragonabile a quella di un appartamento di medie dimensioni.

Questa enorme superficie di scambi fa sì che ogni tossico inalato possa essere assorbito nel sangue del lavoratore.

Ogni individuo inoltre effettua circa 17.000 atti respiratori al giorno (se è a riposo) e per tanto il volume d’aria scambiato con l’ambiente esterno giornalmente è di 8.000–20.000 litri.

Alla luce di quanto detto è evidente che ogni agente tossico presente in ambiente lavorato può determinare effetti a carico dell’apparato respiratorio e da questo andare ad interessare anche altri organi per effetto dell’assorbimento attraverso il sangue.

L’esposizione lavorativa può essere causa di una vasta gamma di malattie professionali tra le quali bronchite acuta e cronica da polveri, gas e fumi tossici, fibrosi polmonari da carbone, silice ed amianto, asma professionale (ad esempio da isocianati o polveri di cereali), malattie da iper sensibilità (polmone del contadino da inalazione di spore fungine presenti nel fieno), infezioni (ad esempio la tubercolosi) ed infine i tristemente noti tumori professionali del polmone o delle pleure (mesotelioma pleurico).

In particolare quest’ultimo assume grande rilevanza in quanto trattasi di neoplasia altamente maligna e gravata da una elevata mortalità e la cui incidenza nella popolazione generale è in aumento nonostante il bando nazionale dell’amianto (fuori produzione dal 1992) per via della lunga latenza di insorgenza (il tumore può insorgere anche a 40 anni dall’esposizione).

Tra le altre malattie merita attenzione la bronchite cronica (e l’enfisema) che può manifestarsi nei saldatori che lavorano in assenza di dispositivi di protezione (aspiratori) per effetto dell’inalazione di ossidi di metallo, la bronchite degli esposti a polveri di cemento che può evidenziarsi tra i lavoratori dei cementifici e nel comparto dell’edilizia e l’asma professionale.

Quest’ultima rappresenta una patologia emergente e spesso non diagnosticata in quanto il medico di famiglia e lo pneumologo solitamente non indagano la storia lavorativa dei soggetti visitati.

Dal momento che le malattie polmonari da lavoro possono essere anche molto gravi ed a volte letali è necessario agire in via preventiva, mantenendo salubre l’aria dell’ambiente di lavoro ed utilizzando gli appositi dispositivi di protezione individuale (mascherine/facciali filtranti adeguati alla dimensione delle particelle presenti).

È inoltre fondamentale effettuare una diagnosi precoce di eventuali malattie appena insorte per poter allontanare il lavoratore dall’esposizione nociva; a tal fine il medico competente dell’azienda effettua una visita medica mirata all’apparato respiratorio e integra l’indagine mediante la spirometria.

L’esame spirometrico si esegue con l’ausilio di uno strumento chiamato spirometro.

L’indagine è semplice, per nulla invasiva o fastidiosa ma richiede una completa collaborazione da parte del lavoratore che deve eseguire delle manovre respiratorie mentre è collegato con la bocca allo spirometro. Essa misura la funzione dei polmoni e dei bronchi in maniera semplice ed accurata.

L’indagine clinica in casi specifici può essere integrata da una radiografia del torace o (più modernamente) da una TC del torace ad alta risoluzione. Quest’ultimo esame, comportando una dose di radiazioni più elevata può essere prescritto dal medico solo in casi particolari.

Il lavoratore deve segnalare al medico competente ogni eventuale sintomo (tosse, difficoltà respiratoria, affanno) insorto in ambiente lavorativo affinché questi possa indagarne il motivo.

Ovviamente è tassativo che particolarmente coloro che lavorano esposti a tossici respiratori si astengano dal fumo di sigaretta.

Per quanto riguarda il cuore e l’apparato cardiovascolare, questo può essere il bersaglio di agenti professionali (solventi, metalli) in grado di determinare aritmie, ischemia miocardica e scompenso cardiaco. Tali effetti alle attuali esposizioni lavorative sono però divenuti fortunatamente rari.

Più comunemente può avvenire che una condizione di salute personale (ad esempio un infarto) pongano problemi di idoneità allo svolgimento di una determinata mansione che comporta ad esempio sforzi gravosi (edilizia o magazzinaggio).

In tali casi il medico competente richiederà una serie di esami (elettrocardiogramma, prova da sforzo ecocardiogramma) che sono utili a capire quale è il livello di sforzo che il lavoratore può compiere senza rischio.

Anche e soprattutto in ambito cardiovascolare è molto importante prestare attenzione alla riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare mediante riduzione dei livelli di colesterolo, controllo della pressione arteriosa, pratica di regolare attività fisica, abolizione del fumo di sigaretta.

Dott. Luca Coppeta, Professore Ordinario all’Università degli Studi di Tor Vergata

Gli adolescenti di oggi e i genitori troppo amici. Mentalizzare le relazioni non consente di dire no. | RSPP consulente esterno

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Gli adolescenti di oggi e i genitori troppo amici. Mentalizzare le relazioni non consente di dire no.

RSPP consulente esterno

Qualche giorno fa, leggendo un articolo su un quotidiano sono rimasta inorridita dalle modalità con cui il giornalista definiva il suicidio di un altro adolescente (il terzo nel giro di due settimane in Veneto).

Ha parlato di MORTE BIANCA, associando questi suicidi alle morti dei lattanti che si solito avvengono in culla, in maniera improvvisa ed inspiegabile.

La morte di qualcuno è sempre un evento traumatico e tragico, che lascia un segno indelebile nelle persone “che restano”, soprattutto quando parliamo di persone così giovani, nel pieno della vita e che godono di uno stato fisico di ottima salute.

Abbiamo imparato a definire tutto MORTE BIANCA, anche le morti sul lavoro vengono definite così, quasi si volesse a tutti i costi deresponsabilizzare, chiunque, di un fatto così tragico.

Perché, scusatemi, ma l’unico aggettivo che ammetto è tragico, improvviso ed inspiegabile no. Per me di inspiegabile ed improvviso, in questi suicidi non c’è nulla.

Che l’adolescenza sia un periodo della vita che espone il “non più bambino” a mutamenti fisici e grandi turbamenti emotivi in quanto si affaccia come individuo, come essere pensante e senziente, all’interno di una società che fa richieste sempre più pressanti, è noto a tutti ed esiste sin dalla notte dei tempi.

Ma se è vero che è un passaggio obbligato della vita, allora mi sorge spontaneamente una domanda “perché una volta no, e oggi un adolescente arriva così accessibilmente al suicidio?”. “Perché un adolescente ha la convinzione che non esistono vie di uscita e l’unica soluzione sia interrompere una sofferenza così devastante?”

Non servono manuali di psicologia per renderci edotti in questo, ma è noto ormai ai più che per poter passare dalla condizione infantile a quella adulta, si deve necessariamente e metaforicamente “uccidere” il bambino che abita dentro di noi, abbandonare le certezze ricevute dal nucleo familiare e addentrarsi nella “selva oscura” del mondo adulto.

Questo non è certamente un passaggio semplice e, la tristezza, la solitudine che si prova “perché nessuno mi capisce” sono sentimenti che accomunano e che hanno accomunato gli adolescenti di tutti i tempi.

E allora perché ad un certo punto le “porte si chiudono”?

Ho cercato di darmi una spiegazione e credo che, seppur in un processo evolutivo di enorme portata, ci siamo trovati ad aderire a proposte educative di “riempimento” piuttosto che di guida.

Ci siamo dati degli appellativi che trovo assurdi, ad esempio di “immigrati digitali”, in quanto la soluzione migliore, quella che abbiamo trovato per alleviare le nostre coscienze, per toglierci da ogni responsabilità, quella più titolata e che accomuna il pensiero comune è quella del “se non conosco, non lo posso fare”.

Ed ancora una volta l’adesione ad un pensiero condiviso e condivisibile ci mette al riparo da qualsiasi critica, da qualsiasi presa di posizione, dall’essere educatori.

Ci troviamo così a riempire secchi, colmare le lacune affettive e le assenze con cose, oggetti, con tutto ciò che ci lascia vivere in pace “senza colpo ferire”.

Non “guardiamo” più i nostri ragazzi, non siamo più i loro “specchi”, perché se li autorizzassimo a fare questo, ci esporremmo troppo, ci metteremmo a nudo, ci sentiremmo depauperati, in qualche modo, di un ruolo che facciamo fatica a mantenere, abbiamo paura che i nostri ragazzi possano vedere solo le nostre debolezze.

Non ci viene in mente che loro ci guardano in tutta la nostra interezza, non ci viene in mente che dobbiamo essere per loro un punto di riferimento, non ci viene in mente che abbiano bisogno di regole, non ci viene in mente che gli adulti rimaniamo sempre noi e che siamo sempre noi a consegnare loro le chiavi di accesso nel mondo adulto.

Come cicale in coro ci troviamo a parlare, discutere, criticare, a fare un chiasso assordante ed inconsistente, su quanto sia difficile fare gli educatori oggi, su quanto sia difficile trasmettere regole e saperi.

Alla fine, però, di tutto questo gran parlare, facciamo la fine delle cicale, che “dopo un’estate spesa a cantare muoiono”.

Non possiamo di certo aspettare che arrivi un principe azzurro a svegliarci dal sonno, non possiamo continuare ad aspettare che sia sempre qualcun altro a “trovare la soluzione”.

A volte complichiamo per semplificare, ma in questo caso abbiamo semplificato la vita per complicare l’esistenza.

Ci bendiamo, non ascoltiamo, ci basta sentire i passi del nostro bambino (tredicenne) che rincasa a notte fonda (quando ce ne accorgiamo). E poi ci troviamo da Barbara D’Urso a raccontare, in un crescendo apocalittico di ipocrisia, i fatti.

Tra le lacrime i genitori raccontano che era un ragazzo tranquillo, che non aveva grilli per la testa, che non è stata colpa sua, che qualcuno lo ha indotto a comportarsi così. Di fatto non sanno assolutamente nulla della vita dei loro ragazzi, di come passano il tempo, con chi, quando escono, quando entrano.

Riaccendere nei nostri ragazzi il fuoco della passione, lasciarli ardere per qualcosa o per qualcuno, lasciarli cadere, ma essere lì, pronti per tender loro la mano, quando non ce la fanno a rialzarsi.

Questo è un educatore, questo è fare educazione: accompagnare, non fare la loro posto.

E qui non centrano i social network, non centra il controllo, non c’entra il voler trasgredire per dire “io ci sono”, c’entra solo che nel nostro personale processo evolutivo abbiamo scordato che empatia fa rima, da sempre, con autonomia.

Non sono una predicatrice, ma un’osservatrice sì. E quello che osservo, come in un sottile filo rosso che accomuna gli adolescenti e gli uomini di tutti i tempi è che, l’unico motore, quello che realmente “muove il mondo” è l’amore.

Lascio che siano le parole di Jung a spiegare quello che voglio dire certa che, la comune convinzione, sia che vivere sia, in estrema sintesi, un ATTO DI CORAGGIO.

“Comincia sempre da te; in tutte le cose e soprattutto con l’amore. Amore è portare e sopportare se stessi. La cosa comincia così. Si tratta veramente di te; tu non hai ancora finito di ardere; devono arrivarti ancora altri fuochi finché tu non abbia accettato la tua solitudine e imparato ad amare”. (C. G. Jung – Libro Rosso).

Dott.ssa Giuseppina Filieri, A.D. della Fondazione Asso.Safe

La vendemmia, come in questi anni sono cambiate le attività di raccolta dell’uva – RSPP Bergamo

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La vendemmia, come in questi anni sono cambiate le attività di raccolta dell’uva

RSPP Bergamo

L’afa dell’estate ha ceduto il passato all’aria mite di settembre, le foglie degli alberi ci raccontano che non è più tempo di festa, e le giornate, sempre più corte, ci ricordano che l’autunno è ormai alle porte.

Gli odori di questo mese però, non fanno altro che ricordarmi che questo per me, da piccola, era un periodo di festa.

C’era la vendemmia! E la vendemmia ai tempi di mio nonno, metteva tutti in fermento.

Organizzare gli uomini e le donne per la raccolta, il rimorchio dietro il vecchio trattore per trasportare l’uva, il lavaggio dei tini. Io, invece, mi preoccupavo di quali indumenti e di quali scarpe avrei dovuto indossare e mi accertavo che ci fossero un paio di forbici anche per me. La sveglia era all’alba e alle quattro del mattino era ancora buio.

Le gocce di brina sulle viti brillavano, e gli acini dei grandi grappoli d’uva, mi sembravano preziosi gioielli.

Percorrevo la “carrara” (dialetto salentino), un corridoio di terreno che divideva in due i campi in cui c’erano i filari, con mio fratello e i miei cugini, seguendo le voci delle donne, che già a quell’ora ridevano e scherzavano, raccontando aneddoti divertenti e barzellette. Con un secchio bianco in mano e le forbici, fiera, sceglievo un filare. Io e mio cugino dividevamo il filare.

Dovevo fare attenzione con le forbici e stare attenta a non tagliarmi, altrimenti non avrei più potuto vendemmiare.

Gli uomini, invece, avevano già disposto i tini neri nei filari, in modo che i secchi d’uva potessero essere svuotati e successivamente riempiti.

Sento ancora addosso la brina delle viti che mi bagna, l’odore e, al tempo stesso, il peso dei grappoli. E che dolore alla mano a forza di tagliare, la schiena e le gambe, a mezzogiorno, mi facevano male! Oltre al vociare delle donne, sentivo il rumore delle forbici, che prepotente si univa all’unisono a ricordarci che la fine del filare era ancora lontano.

Gli uomini, invece, avevano il compito di portare fuori i tini e svuotarli nel grande carrello posto dietro al trattore. I tini venivano sollevati da due uomini e posti sulla spalla di uno dei due (tra collo e braccio).

Questi avevano il compito di trasportare il “cofano” (così veniva chiamato in dialetto il tino pieno d’uva). I più piccoli si divertivano a pressare l’uva all’interno del tino, affinché il carico potesse diventare più pesante.

Quanto mi faceva ridere vederli imprecare perché il tino era pesantissimo.

 Ogni tino poteva contenere dai 50 ai 60 kg d’uva.

Ricordo che per evitare che il tino poggiasse direttamente sulla spalla, avevano una protezione, di materiale soffice avvolta in un pezzo di sacco di juta, cucito al centro, ai cui lati era stato fissato uno spago (si metteva sotto il braccio opposto a quello sul quale si sarebbe posto il carico). Aveva la forma di una mezza luna.

Mio nonno coordinava le operazioni di carico e scarico, accertandosi che durante lo svuotamento dei tini nel grande carro, l’uva non cadesse per terra. Mia nonna, invece, coordinava le donne nel lavoro di raccolta.

Di tanto in tanto mi capitava di vederla andare, col secchio in mano, qua e là tra i filari: raccoglieva l’uva migliore che sarebbe stata posta per ultima sopra il rimorchio, prima del trasporto in cantina. In questo modo la gradazione dell’uva sarebbe stata più alta e di conseguenza anche la retribuzione.

Era molto scaltra e si muoveva velocemente: non ho mai capito come facesse a terminare prima delle altre donne il suo filare, che non si dovevano accorgere di questo stratagemma che aveva ideato. Credo che neanche mio nonno ne fosse al corrente.

Mio nonno, prima di congedare le raccoglitrici, controllava tra i filari, e, se vedeva degli acini d’uva caduti e lasciati per terra, erano davvero guai. Urlava che erano grandi come fichi fioroni (culumbi, diceva lui), si metteva a raccoglierli e noi bambini, dovevamo, appresso a lui, fare la stessa cosa.

Alle undici e mezza arrivava l’attesa “pagnotta” con mortadella e provola: che bello era mangiarla con le mani ancora sporche d’uva, seduti al fresco sotto un albero. Era il nostro compenso!

Questi tesori di inestimabile valore, e per me sono ricordi preziosissimi, ma solo oggi, pesandoci, mi rendo conto a quanti rischi ci si esponeva, incoscientemente. È vero, parliamo di trent’anni fa, e di certo, allora, la priorità era il raccolto e non la messa in sicurezza delle persone.

Con la mente ritorno a quei giorni e vedo persone come muletti, donne chine sotto le viti a tagliare, con la schiena arcuata, il fresco e l’umido del mattino, che penetra nelle ossa, il caldo di metà giornata che toglie il respiro, il trasporto su strada del raccolto su un mezzo forse non troppo a norma.

Le modalità di raccolta dell’uva, a distanza di molti anni, sono ancora prevalentemente di tipo manuale, e, se anche sono cambiate alcune condizioni lavorative, di fatto l’esposizione ai rischi degli operatori, è pressoché invariata.

Se un tempo le attività agricole non rientravano all’interno di categorie o classi lavorative considerate a rischio, o all’interno di una determinazione tale da rendere la subordinazione tra titolare e dipendente (ricordiamo che le aziende agricole a conduzione familiare non rientravano, fino a pochissimo tempo fa, nella definizione di azienda data dal Testo Unico) una condizione lavorativa (quindi l’espletamento di una mansione), da mettere in sicurezza, oggi diventa di prioritaria importanza considerare gli agricoltori alla stregua di qualsiasi altro lavoratore. Questo vale anche per il personale cosiddetto “avventizio”.

All’interno di detta categoria rientrano anche i lavoratori, definiti stagionali, perché svolgono la stessa attività, presso la stessa azienda, per un numero di giornate non superiori a cinquanta nell’arco dell’anno.

Unica condizione è che le lavorazioni in cui vengono impiegati, siano semplici e generiche e non richiedano requisiti professionali specifici.

Con la pubblicazione del Decreto Interministeriale del 27 marzo 2013 riguardante la “Semplificazione in materia di informazione, formazione e sorveglianza sanitaria dei lavoratori stagionali del settore agricolo” vengono definiti due punti importanti:

  • La formazione del personale
  • La Sorveglianza Sanitaria e la visita preventiva

A seguito dell’art. 3 del D.M. 23 marzo 2013, per la formazione del personale stagionale, si propone una metodologia specifica per ottemperare a tale obbligo, affinché il processo di apprendimento possa essere non solo potenziato, ma anche mirato alla specifica mansione e possa, contestualmente, essere facilmente gestito dall’azienda agricola.

Tale metodologia prevede una formazione ed un addestramento da effettuarsi prima dell’inizio dell’attività lavorativa.

L’applicazione di questa metodica, definisce e sottolinea tre elementi chiave che, a mio avviso, dovrebbero essere adottati per tutte le realtà lavorative:

Effettuare la formazione specifica calibrandola sulla singola realtà aziendale. La formazione e la sicurezza, quali elementi integrati alla cultura del lavoro, prevedono l’attivazione di un processo di apprendimento che dovrebbe avvenire, non solo mediante la fruizione di lezioni in aula, ma dovrebbe essere necessariamente contestualizzato alle attività di lavoro.

Pertanto le informazioni devono essere utili al lavoratore nello scenario operativo e non essere dei meri riferimenti normativi generali ed aspecifici.

Per quanto concerne la Sorveglianza Sanitaria e la Visita Preventiva, è lo stesso Decreto Interministeriale a definire l’obbligo di Visita se, dalla valutazione dei rischi emerge che, il lavoratore stagionale, durante l’espletamento della mansione è esposto a dei rischi specifici. Tenendo conto dei rischi cui è esposto il lavoratore addetto alla vendemmia manuale (movimentazione manuale dei carichi, tagli agli arti superiori, movimenti ripetitivi, esposizione e clima severo caldo, scivolamenti e/o cadute a livello, cadute dall’alto, investimenti, rischio biologico) è necessario che il datore di lavoro li sottoponga alla visita preventiva.

Con questo non intendo dire che il datore di lavoro debba scegliere addetti alti, belli, forti e con un sorriso smagliante, ma uomini e donne che possano svolgere un lavoro che, seppur nella sua semplicità, possa ridurre al minimo i rischi cui, gioco forza, sono esposti.

Se da un lato le aziende agricole fanno fatica a “digerire l’obbligo normativo”, dall’altro ci troviamo con costi di raccolta altissimi e mancanza di personale avventizio da poter impiegare nelle operazioni di raccolta.

Per queste ragioni, pur prediligendo, a tutt’oggi, una vendemmia di tipo manuale, si sta facendo strada, e a grandi passi, soprattutto nelle grandi realtà viticole, la vendemmia meccanizzata.

Le vendemmiatrici, ce ne sono di diversi tipi sul mercato a seconda del tipo di coltura e terreno su cui verranno utilizzate, risolvono il problema dell’organizzazione e della gestione del personale, limitando le problematiche connesse alla sicurezza sul lavoro, ai rapporti fra gli operai e quelle relative alla manodopera. Inoltre sono in grado di velocizzare le operazioni di raccolta.

Di tipo semovente o trainato e lavorando avanzando nell’interfilare, oppure a cavallo del filare (scavallatrici), in base alle forme di allevamento, operano uno scuotimento della parete produttiva del vigneto, potendo così, in un’unica operazione, provvedere al distacco degli acini, alla separazione delle foglie e al caricamento del prodotto in un apposito serbatoio.

L’addetto all’uso della vendemmiatrice è comunque esposto a rischi specifici, quali ad esempio: rischio biologico, rischio meccanico connesso alle fasi di scarico, carico e regolazione della macchina, rischi connessi all’utilizzo della trattrice agricola.

Quindi, anche per gli “autisti” addetti alla conduzione della vendemmiatrice, il titolare dell’azienda agricola, deve provvedere alla messa in sicurezza dell’operatore ed alla verifica dell’idoneità psicofisica per la conduzione del mezzo. Se da un lato, quindi, cerchiamo, attraverso la meccanizzazione e la tecnologia di dare la giusta innovazione, dall’altro, rimaniamo ancorati a sistemi di lavoro fin troppo tradizionali, e a gap culturali, che, a volte non ci consentono di comprendere che, avere una persona sana e formata, significa investire su una risorsa che permette di risparmiare tempo e di conseguenza portano ad avere una diminuzione dei costi.

La saggezza e la sapienza dei contadini di un tempo, sono passati, oggi, nelle mani di viticoltori specializzati che, oltre alla custodia delle tradizioni non possono dimenticare che, nella pratica agricola, la custodia dell’uomo è di fondamentale importanza.

Che sia manuale o meccanica, la vendemmia rimane il momento dell’anno che ha sapore di antico, di mani che raccolgono, di piedi che pestano, di odori e colori che seducono, di risate di bimbi che, festosi, corrono su e giù per i filari. Questo è il vero patrimonio dell’umanità.

Dott.ssa Giuseppina Filieri, A.D. della Fondazione Asso.Safe