Author: Giovanni Samele

CORSO ADDETTO PRIMO SOCCORSO (aziende gruppo B e C) – Corso Primo Soccorso

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CORSO ADDETTO PRIMO SOCCORSO (aziende gruppo B e C)

Corso Primo Soccorso

L’Addetto al primo soccorso è il lavoratore incaricato dell’attuazione in azienda dei provvedimenti previsti in materia di primo soccorso ai sensi dell’art. 18 e 45 del D. Lgs. 81/08.

Il corso ha l’obiettivo di formare e informare gli addetti al pronto soccorso aziendale trasferendo ai partecipanti le opportune conoscenze di natura tecnica nonché le necessarie abilità di natura pratica.

Tutta la formazione è svolta da personale medico.

 

Il corso di Primo Soccorso si articola in tre moduli A, B e C:

Modulo A

  • Allertare il sistema di soccorso
  • Riconoscere un’emergenza sanitaria
  • Attuare gli interventi di primo soccorso
  • Conoscere i rischi specifici dell’attività svolta

Modulo B

  • Acquisire conoscenze generali sui traumi in ambiente di lavoro
  • Acquisire conoscenze generali su patologie specifiche in ambiente di lavoro

 Modulo C

  • Acquisire capacità di intervento pratico

 

Studio Samele è un Centro Convenzionato a Fondazione Asso.Safe in collaborazione con A.D.L.I. (Associazione Datori di Lavoro Italiani) e CONF.A.M.A.R. (Confederazione Autonoma dei Movimenti Associativi di Rappresentanza) nonché riconosciuto come Sede Territoriale A.D.L.I.

Tutta la formazione erogata è certificata ed approvata da:

O.N.P.A.C. (Organo Nazionale Paritetico Adli Confamar)

O.P.N.E. (Organo Paritetico Nazionale Edilizia)

Al termine del corso verrà consegnato il Programma Formativo approvato dagli Organismi Paritetici competenti, il registro presenze, le dispense, i test finali di valutazione dell’apprendimento, gli attestati di Fondazione Asso.Safe.

Sede di svolgimento: Studio Samele S.r.l., via C. Colombo, 24 – 24044 – Dalmine (BG)

 

DATE 1° corso: lunedì 26 novembre ore 8:30/14:30 e lunedì 3 dicembre ore 8:30/14:30;

DATE 2° corso: lunedì 10 dicembre ore 8:30/14:30 e lunedì 17 dicembre ore 8:30/14:30.

 

COSTO: 150.00 euro (iva esclusa)

Lo Storytelling: una strategia per formare i lavoratori | RSPP esterno

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Lo Storytelling: una strategia per formare i lavoratori

RSPP esterno

«La narrazione è un’attività umana fondamentale, un modo di pensare e di essere». Parole di Steve Jobs che è stato capace di raccontare la sua storia nel modo più efficace. Chi non conosce oggi Apple e la sua mela?

Una storia cattura l’attenzione e coinvolge chi ascolta: lo storytelling utilizza la narrazione dei racconti ed è una innovativa ed efficace tecnica di comunicazione a cui un numero sempre maggiore di aziende ricorre.

Con obiettivi precisi, far sì che i consumatori diventino parte della storia e vivano le stesse esperienze ed emozioni.

Far sì che le storie raccontate si propaghino grazie al passaparola, che non è cosa insolita perché nessuno di noi riesce a smettere di raccontare storie, così come non rinuncia mai a cercarne di nuove.

Far sì che i clienti scelgano i prodotti più per ciò che essi rappresentano con la loro storia che per quello che sono.

Far sì che si creino brand aziendale forti, marchi basati essenzialmente su una storia.

Tra i primi a sperimentare questa tecnica Rana e Amadori che hanno scelto di essere testimonial in prima persona delle campagne pubblicitarie.

Lo storytelling è tutto questo, ed è molto di più.

Preso in prestito dal marketing americano, oggi viene applicato anche in diversi campi della formazione. Nel business come in politica: i candidati la utilizzano per spiegare i loro programmi agli elettori e convincerli a votarli.

Il saper narrare è generatore di apprendimento e cambiamento ed è qui che entrano in campo formatori e manager.

Il termine “formazione” deriva dal latino  formatiōne: significa attivazione di un processo che dalla prima acquisizione di concetti giunga alla loro assimilazione.

Nella formazione, il racconto di storie aumenta la potenza della comunicazione perché trasmette emozioni grazie ai percorsi narrativi nei quali le persone riescono a identificarsi. Lo storytelling garantisce l’ascolto e il coinvolgimento delle persone, influenza il loro pensiero e il loro comportamento.

Uno strumento potente quindi, soprattutto per trasmettere nuovi obiettivi, proporre cambiamenti, superare ostacoli.

Ma la tecnica dello storytelling si può applicare a tutte le attività di formazione per la sicurezza nel mondo del lavoro? Assolutamente si! È facile da applicare? Forse no, ma sicuramente possibile.

Lo storytelling è una tecnica precisa. Ci sono studi specifici che classificano le tipologie delle storie, indicano quali sono i fattori da tenere presente per poter creare i racconti. È necessario quindi studiare una strategia adeguata per ogni realtà.

Le storie devono essere reali, fruibili, apprezzabili ed efficaci. Devono poter coinvolgere il nostro interlocutore come se stesse ascoltando una fiaba. Quindi servono: una trama, un eroe, un’impresa, le avversità e la conquista di un “el dorado”.

Bisogna creare storie che possano condividere conoscenze, che raccontino quello che siamo, che producano azioni e che trasmettano valori morali. Ma soprattutto che abbiano un obiettivo finale che permetta di vedere ciò che potrà accadere di positivo in un prossimo futuro.

Cosa ci serve oggi? Cercare di applicare quello che sappiamo già, non dimenticare le competenze e le esperienze apprese nel tempo, specialmente quando dobbiamo salvaguardare la nostra vita dai pericoli che corriamo durante il nostro lavoro quotidiano.

Lo storytelling è il metodo di formazione migliore in questo campo perché mette al centro del percorso di apprendimento la “persona”, e non solo le competenze operative spesso unicamente teoriche.

Si è imparato sempre qualcosa di nuovo quando è finita la formazione, e quello che si è appreso lo si applica tutti i giorni nell’attività lavorativa, mettendosi “alla prova”. Magari semplicemente domandandosi: «Che cosa sto facendo? È corretto il modo in cui svolgo il mio lavoro? Posso farlo in maniera più sicura?». A queste domande troveremo le risposte nel ricordo della storia raccontata e vissuta dal formatore e creando a nostra volta una propria storia personale che potrà essere di esempio ai nostri colleghi.

No, non è un’impresa facile! Per fare questo bisogna prima guardarci allo specchio e poi interrogarci su chi siamo, cosa facciamo, quali obiettivi ci poniamo costantemente, quali sono i nostri sogni, dove vogliamo arrivare, cosa vogliamo trasmettere agli altri, in cosa crediamo veramente. Questo vale per tutti i ruoli, sia per il formatore sia per il discente.

Ops! Troppe domande? Forse mi sono lasciato prendere la mano.

Nelle mie esperienze lavorative vissute in azienda come manager spesso ho dovuto costatare che i primi a non voler rispondere sono proprio gli imprenditori e spesso anche gli stessi formatori.

Ti dicono cosa e come devi fare solo perché hanno l’autorità per farlo. Come se divulgando i propri sogni e le proprie ambizioni svelassero la ricetta segreta del loro successo.

Ma le aziende sono fatte di persone. Che contribuiscono giornalmente al raggiungimento degli obiettivi aziendali. Questo non dovremmo dimenticarlo mai.

Prima di creare la nostra storia, dobbiamo perciò conoscere la storia dei nostri collaboratori. E in questo ci può aiutare la formazione che aiuta noi e loro a raccontarci e a conoscerci, per poi poter creare e realizzare la nostra storia personale.

Non importa quello che produciamo, se macchine o servizi, vendita o noleggio, sicurezza o formazione. Conta in che modo lo trasmettiamo ai nostri potenziali allievi, collaboratori, discenti. E se anche loro avessero delle storie da raccontarci? Proviamo ad ascoltarle! Buon storytelling a tutti.

 

Dott. Michele Curatella, Membro del C.T.S. della Fondazione Asso.Safe

Il patentino per gli addetti alla conduzione di carrelli elevatori | Corso carrello elevatore

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Il patentino per gli addetti alla conduzione di carrelli elevatori

Corso carrello elevatore

L’impiego del carrello elevatore presuppone la massima attenzione e il rispetto di precise regole da parte dell’operatore carrellista: manovre scorrette o comportamenti inadeguati possono avere conseguenze, anche gravi, sia sulla propria sia sull’incolumità altrui.

È per questa ragione che ciascun addetto deve conseguire l’abilitazione per la conduzione dei carrelli elevatori, il cosiddetto patentino, frequentando un corso della durata di almeno 12 ore (8 ore di teoria a cui se ne sommano altre 4 di pratica che diventano 8, in caso di abilitazione per carrelli industriali semoventi, semoventi a braccio telescopico e carrelli e sollevatori elevatori semoventi telescopici rotativi) da effettuare presso soggetti formatori accreditati.

Gli argomenti trattati durante la parte teorica sono molteplici. Si inizia con un modulo giuridico-formativo della durata di 1 ora in cui vengono forniti cenni di normativa generale in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, seguito da un modulo tecnico di 7 ore in cui vengono descritte le varie tipologie e caratteristiche delle macchine, i principali rischi connessi al loro uso, i dispositivi di comando e di sicurezza, i controlli e le manutenzioni.

Al termine dei due moduli ai candidati verrà somministrato un test, che una volta superato consentirà il passaggio allo step successivo. Durante la parte pratica, seguendo le istruzioni d’uso del carrello, vengono illustrati i vari componenti e le sicurezze del mezzo, manutenzione e verifiche periodiche e quotidiane da effettuare, e infine è prevista la guida del carrello in un percorso di prova.

Anche questo modulo viene accompagnato da prove pratiche che, se affrontate con successo, portano al conseguimento dell’abilitazione. E visto che, per dirla con le parole di Eduardo De Filippo, “gli esami non finiscono mai”, dopo 5 anni dal conseguimento il carrellista abilitato dovrà prendere parte ad un corso di aggiornamento della durata minima di 4 ore.

E infine, bisogna ricordare un’altra regola d’oro: una guida sicura inizia con un carrello elevatore sicuro. Non si deve mettere a operare nessun mezzo che non sia in perfette condizioni, cosa che l’operatore deve testare preliminarmente all’inizio della giornata lavorativa, e, se vengono riscontrate delle avarie, vanno segnalate al datore di lavoro affinché siano riparate.

 

A cura della redazione di Muletti Dappertutto

Educare i giovani all’uso della rete: il difficile compito nell’era dei nativi digitali | Corsi sicurezza online

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Educare i giovani all’uso della rete: il difficile compito nell’era dei nativi digitali

Corsi sicurezza online

Primo smartphone a 3 anni, poi il tablet e infine il notebook o il pc. È ormai sempre più diffusa l’abitudine di dare dispositivi tecnologici già a partire da giovanissima età.

L’approccio di questi strumenti è così intuitivo che dopo aver imparato a camminare e forse ancora prima di parlare i bimbi utilizzano in totale destrezza qualsiasi smartphone o tablet.

I genitori di oggi sono cresciuti in un mondo in cui l’informatica rivestiva un ruolo molto differente. Tra gli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90 il pc non era ancora entrato stabilmente dentro le mura domestiche.

Rimaneva uno sfizio per pochi che avevano la volontà di “navigare” tra righe di comando, e impegnativi programmi che richiedevano oltreché delle competenze avanzate anche una certa predisposizione a meccanismi ancora troppo poco intuitivi.

La diffusione dei primi computer con interfaccia grafica a buon mercato (Windows 95 e 98) ha avvicinato un’utenza maggiore al mondo dei pc ma la vera rivoluzione è stata a metà degli anni 2000. Inizialmente l’arrivo della banda larga, l’ADSL ha modificato l’approccio ad internet.

Le velocità di connessione, inizialmente decuplicate e successivamente centuplicate abbinate a piani tariffari flat (che permettevano una connessione illimitata ad un costo fisso) hanno reso accessibile molto più facilmente a contenuti prima considerati impensabili.

Con le vecchie connessioni solo per visualizzare una fotografia era necessario circa 1 minuto, con la prima generazione di ADSL si è passati a 8 secondi per poi arrivare ad oggi che con le connessioni 4g o a fibra ottica è necessario meno di un decimo di secondo.

Per caricare un filmato di qualche minuto attualmente sono necessari pochi secondi quando anche solo con le prime connessioni ADSL era comunque necessario attendere circa una decina di minuti.

In contemporanea con la diffusione delle reti ad alta velocità nascevano gli smartphones diffondendo definitivamente e in maniera capillare non solo l’uso della tecnologia ma soprattutto l’utilizzo di internet.

Ma gli smartphone, così come li conosciamo oggi, hanno appena 10 anni (2007 è stato l’anno di lancio del primo Iphone) e sono quindi ancora strumenti relativamente giovani e chi oggi li utilizza tutti i giorni ne può percepire solo relativamente l’impatto che essi possono avere nella quotidianità dei più giovani poiché le applicazioni utilizzate da un adulto sono diverse da quelle utilizzate da un teenager, che sono a loro volta diverse da quelle utilizzate da un adolescente e diverse ancora da quelle utilizzate da un bimbo delle scuole elementari.

I genitori di oggi, quando erano bambini o adolescenti, utilizzavano mezzi differenti per comunicare ed è quindi normale non capire a fondo la differenza tra il mondo di ieri e quello di oggi. La differenza che intercorre tra un sms inviato alla fine degli anni ‘90 e un WhatsApp nel 2018 è enorme nonostante la forma di comunicazione possa sembrare molto simile.

Ricordiamoci di come fino a 10 anni fa ogni singolo messaggio sms avesse un costo che ci faceva pensare più di una volta se privilegiare un messaggio rispetto ad un altro lottando su pochi centesimi per avere la tariffa migliore. Inoltre non esistevano le chat di gruppo che ad oggi rappresentano forse la più grande rivoluzione dei sistemi di chat mobile.

Proprio la semplicità che ha avvicinato gli adulti all’utilizzo di queste tecnologie è stata anche il vettore che ha permesso ai più giovani di venire a contatto con questi sistemi.

Infatti l’utilizzo di schermi touch abbinati ad un sistema estremamente intuitivo ha reso l’utilizzo di funzioni avanzate, che prima erano esclusiva di utenti esperti, alla portata di tutti.

Fino a poco più di 10 anni fa caricare un video in rete richiedeva capacità davvero avanzate: non bastava entrare in un profilo di YouTube, selezionare il video desiderato e premere un pulsante. Era necessario innanzitutto avere una telecamera in grado di registrare in digitale (i telefonini all’epoca non erano in grado di garantire una qualità video accettabile), caricare il video nel proprio PC, convertire il video affinché fosse compatibile con il formato del sito che lo accoglieva, trovare infine una piattaforma online che accettasse quel video. Inoltre gli unici sistemi per poi diffonderlo in rete erano le email e i forum che all’epoca stavano vivendo la loro “età dell’oro”.

Le difficoltà erano quindi oggettive e raramente chi utilizzava la rete utilizzava i video e le immagini come mezzo di diffusione dei contenuti (condizionati anche da una rete internet ancora lenta e poco efficiente).

Inoltre internet era un mondo caraterizzato dall’anonimato. Raramente si trovava il nome reale di un utente che pubblicava contenuti.

Era più facile “nascondersi” dietro a pseudonimi più o meno fantasiosi che tutto volevano tranne che essere riconoscibili e rincoducibili al reale proprietario di un account.

Era proprio la natura anonima a rendere la rete quel grande contenitore dove tutti potevano essere qualsiasi cosa.

Oggi l’utilizzo della rete è fortemente cambiato. L’anonimato ha lasciato la strada all’esposizione di se stessi. La rete è diventata una vetrina del proprio Io, un estensione della propria personalità che serve a delineare la propria unicità.

Non è facile per un adulto capire come un adolescente possa interfacciarsi ed esprimersi grazie a questa grande “piazza” che è la rete.

La diversità di linguaggio che è percepibile nel confronto più tradizionale tra un adulto e un bimbo attraverso la parola si amplifica ancora di più con la tecnologia dove non cambia solo il messaggio trasmesso ma anche lo strumento con il quale il messaggio stesso passa da un interlocutore ed un altro.

La diffusione rapida di applicazioni di tutti i generi non rende facile il controllo dei contenuti utilizzati da un ragazzino. Nuove applicazioni, nuovi giochi, nuovi strumenti per comunicare si rinnovano quotidianamente e non si fa in tempo a conoscere il funzionamento di un’applicazione che è già stata aggiornata nuovamente aggiungendo nuove funzionalità più o meno sicure.

Ultimamente si sono poi registrati casi molto preoccupanti inerenti alcune applicazioni rivolte ad un pubblico giovane. Alcune di queste app infatti esponevano dei banner pubblicitari che rimandavano a siti con contenuti a “luci rosse”.

Quando la cosa è stata scoperta Google e Apple hanno eliminato i “pericoli” ma questo non ha impedito che qualche bimbo abbia accidentalmente avuto accesso a questi contenuti.

Il problema è comunque arginabile facendo la giusta attenzione a limitare non tanto il tempo di utilizzo di questi strumenti quanto intervenendo per limitare l’accesso a determinati contenuti a priori.

Sono sempre più diffuse applicazioni che permettono innanzitutto il monitoraggio delle attività in un determinato dispositivo limitandone orario di utilizzo e soprattutto l’accesso a siti prestabiliti.

Da anni inoltre si discute di assegnare l’estensione di dominio .xxx proprio per rendere più facile il filtraggio di certi siti ai minori. La proposta ha avuto finora poco successo vista anche l’opposizione di coloro che sono “attori” di questo, mercato.

L’impostazione di applicazioni di questo genere è alla portata di tutti ma richiede comunque un certo impegno da parte dei genitori che devono quindi superare delle difficoltà oggettive che nascono spesso da un’educazione informatica in generale ancora molto carente.

Le scuole insegnano l’informatica già dalle elementari ma spesso si limitano a spiegare solo l’utilizzo di determinati programmi senza proporre un metodo generale. Non è infatti una materia, l’informatica, che si deve limitare ad un insegnamento nozionistico dei contenuti ma che deve trasmettere primamente una metodologia nell’affrontare lo strumento tecnologico.

Nell’affrontare nel quotidiano il lavoro di responsabile informatico io stesso dico ai miei colleghi di non domandarsi mai SE esiste un programma o un sito in grado di fare una determinata cosa ma piuttosto domandarsi COME è possibile fare una determinata cosa.

La diffusione di questa mentalità passa anche attraverso il lavoro che iniziative come Frena il Bullo, dove io stesso partecipo in veste di relatore e dove cerco di trasmettere non solo nozioni utili per non fare errori banali ma anche la cultura dell’informatica.

Inoltre sempre grazie alla collaborazione nata tra Fondazione Asso.Safe, A.D.L.I. e il S.I.A.P. vengono organizzate iniziative per insegnare anche ai genitori come difendere loro stessi e i loro figli dai pericoli non solo del bullismo e del cyberbullismo ma anche della rete stessa evitando a prescindere comportamenti errati o distrazioni varie.

Non deve però passare il messaggio che la tecnologia è un male e dev’essere eliminata. La tecnologia, nelle sue varie espressioni, è uno strumento utile che ha cambiato in meglio il nostro mondo ma essendo essa uno strumento è importante saperlo usare nella maniera migliore. Anche un’auto è uno strumento molto utile ma se usata male può uccidere.

 

Per. Comm. Alberto Faggionato, Responsabile Informatico della Fondazione Asso.Safe

 

Un’esperienza diretta sui pesticidi e diserbanti | Valutazione Rischio Chimico

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Un’esperienza diretta sui pesticidi e diserbanti

Valutazione Rischio Chimico

Rutilio Segatori è nato a Milano nel 1963 e si è diplomato come perito industriale nel 1983. Per motivi famigliari si trasferisce in provincia di Cremona nel 1985 e qui, grazie alla patente di caldaista, ha iniziato a lavorare come manutentore in quest’ambito, come dipendente del comune di Robecco D’Oglio.

Fino al 1998, oltre alla manutenzione degli stabili e del depuratore, ho utilizzato sia diserbanti che pesticidi, a seconda dell’area da pulire o della struttura comunale da preservare. I diserbanti, distribuiti sui viali di ghiaia, erano utilizzati per mantenere “pulite” le aree verdi e i parchi, i prodotti granulari a lenta cessione venivano utilizzati sia nei cimiteri affinchè si potesse avere un maggior tempo di rilascio che sulle strade per mantenere puliti bordi e marciapiedi. Poi utilizzavo gli insetticidi contro mosche e zanzare sia presso la casa di riposo comunale che nelle scuole.

L’esposizione a diserbanti e a pesticidi, mi ha inevitabilmente causato dei problemi di salute. Ho consultato diversi medici, ma è solo grazie al dott. Luigi Mancini che siamo venuti a capo del problema: ero affetto da un blocco nel metabolismo dovuto all’atrazina e metabenzene. Ricordo che dissi al dott. Mancini che il problema emerso non poteva essere dovuto all’uso di diserbanti e pesticidi, in quanto noi operai, non solo eravamo in possesso delle abilitazioni necessarie per poterli usare (i patentini), ma che prima di entrare in contatto con dette sostanze, quindi in piena coscienza di ciò a cui ci esponevamo, indossavamo le protezioni necessarie e prendevamo le dovute precauzioni. Per queste ragioni proprio non capivo! Come potevo aver assorbito i principi attivi dei prodotti che utilizzavo? Il dottore mi fece notare una cosa molto semplice: “se non cresce l’erba e non ci sono insetti, vuol dire che il prodotto è presente ed agisce”. Quindi, noi operai, andando a lavorare in questi luoghi e sollevando le polveri o addirittura triturando l’erba secca, inevitabilmente respiravamo il prodotto, introducendolo così nel nostro corpo. Ero intossicato! Con l’aiuto dell’omeopatia impiegai un anno per liberarmi dell’atrazina e quasi due, per debellare il metabenzene. Proprio in quel periodo questi due principi attivi venivano eliminati dal mercato a favore del glifosate. A detta dei venditori del settore, si trattava di un prodotto rivoluzionario, a basso costo ed efficace. Sistemico perchè colpiva la radice delle erbe infestanti e selettivo perché lavorava solo sul DNA delle piante, risultando così innocuo per l’uomo. A distanza di 25 anni dalla sua comparsa in commercio, su larga scala, sta venendo a galla che si tratta di un prodotto altamente nocivo per l’uomo. I residui di glifosato infatti rimangono per lungo tempo nelle piante, ma soprattutto in quelle di mais e di grano. I trinciati di mais vengono mangiati dalle mucche che poi producono latte, il grano viene trasformato in farina: ecco spiegato perché molti bambini soffrono di intolleranze alimentari (generalmente al latte vaccino e alla pasta o ai prodotti derivati dalle farine). Ed il clima di certo non aiuta, anzi rende tutto più difficoltoso. Se pensiamo all’estate appena trascorsa, alla siccità causata dall’assenza di pioggia, non possiamo far altro che riflettere sull’alta concentrazione delle polveri che si sono disperse in aria, anche a causa di un utilizzo massivo e massiccio di macchine e mezzi agricoli sempre più veloci per le lavorazioni del terreno. I dati del 2015 dell’International Agency For Research On Cancer classificano i GLIFOSATE come cancerogeni sia per gli esseri umani che per gli animali (basti pensare quanti cani, che portiamo a fare le passeggiate nei campi e nel verde, soffrono di tumori perché annusano e toccano con il muso il terreno), mentre l’ESFA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) dichiara che il pesticida non è poi così pericoloso, non classificandolo come cancerogeno, ma che un uso improprio potrebbe causare dei danni agli occhi e potrebbe risultare tossico per gli ambienti acquatici. Peccato che queste informazioni si basino sui dati forniti dall’azienda che produce l’erbicida.

Di diverso parere sono i medici per l’ambiente ISDE (International Society of Doctors for the Environment), un’associazione non governativa che riunisce medici di varia nazionalità che mettono come problemi di tipo ecologico possono essere correlate a problematiche sanitarie. I medici di quest’ associazione dichiarano che una prolungata esposizione all’erbicida produce gravi malattie, sia che si tratti di agricoltori che vengono a contatto diretto con l’erbicida, sia che si tratti di consumatori che assumono alimenti trattati con glifosate. A causa di ciò, malattie come la SLA o il PARCHINSON sono in aumento. Assistiamo così a malesseri generali sia ai danni di alcuni calciatori che vanno a giocare sui prati di calcio trattati da erbicidi, o ad agricoltori che, durante il periodo di raccolta, soprattutto dei trinciati, accusano malattie più o meno gravi, che si accentuano maggiormente, quando sono a stretto contatto con il prodotto. Anche le persone che hanno la loro casa confinante con campi coltivati soprattutto a mais, accusano malori o malesseri, più o meno gravi. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) mette in guardia dagli effetti dannosi dei pesticidi e degli erbicidi, dichiarando che sono causa di morte per circa 200.000 persone al mondo. La Commissione Europea è chiamata ad esprimersi sul prolungamento o la revoca della licenza sull’uso del glifosate. Solo Francia, Italia, Austria, Lussemburgo, Belgio sono contrari all’uso del glifosate, mentre gli altri stati europei no. Si parla di una proroga di altri tre anni prima che venga presa una decisione definitiva. In Italia, alcuni venditori non danno più di uno o due litri al privato, alcuni comuni hanno vietato l’utilizzo di detti diserbi nelle aree urbane. In alcune regioni bisogna mantenere distanze di 20 metri dai confini del terreno, strade e fossi, in cui viene distribuito il prodotto. Alcune incentivano procedimenti alternativi come vapore e schiumogeno a base di prodotti naturali, oppure la pulizia meccanica delle erbe. Sembra quasi che qualcosa si muova. Non faccio parte né dell’ISDE, né dell’OMS, ma posso raccontarvi la storia dei miei amici/colleghi. Luigi è morto 6 anni fa con il fegato sciolto da un tumore e faceva il seppellitore. Roberto, che andrà in pensione a fine anno, 9 anni fa si sottoponeva ad un intervento di esportazione della milza, perché con un tumore. Luciano 7 anni fa, dopo appena una settimana dal suo pensionamento, riscontrava dai medici di avere gravi problemi alle valvole cardiache. Sergio, andato in pensione 8 anni fa, ulcera perforante e aneurisma al cuore. Stefano, andato in pensione 20 anni fa, aveva dei grossi problemi ai reni: sono già 7 anni che è morto. Saranno coincidenze, ma 5 operai su 6 hanno avuto problemi seri. Io sono riuscito a curami e sono riuscito ad eliminare queste tossine che si accumulano, in primis, nell’intestino, poi nel fegato, nel pancreas e nella milza. Quando si accumulano nella milza, che è il sacchetto dell’aspirapolvere del nostro corpo, e quindi si intasa, compaiono dolori articolari e tendiniti. Mi sono molto documentato in primo luogo perché dovevo disintossicarmi, ma soprattutto per capire gli effetti dannosi delle tossine aero disperse e contrastarne gli effetti sul mio corpo. Ho letto molti testi e ho cominciato a tenere un diario alimentare quotidiano: in questo modo mi sono fatto un’idea di quali sono i cibi che al mio organismo fanno male perché trattiene i veleni e ciò che fa bene e aiuta a smaltirli (come per esempio la malva, il rosmarino, il tarassaco, l’argilla) e quello che mi fa male (come il lievito, la farina, i formaggi ecc…). Ho impiegato vent’anni nello studio al contrasto ai veleni che ci circondano e per me è molto difficile raccontarlo in poche righe. Ad esempio, le piogge di questi ultimi giorni, sono benefiche perché, se le persone che vi circondano hanno iniziato a stare meglio, è perché si è abbassato il livello di polveri avvelenate disperse nell’aria che respiriamo. Una cosa è certa però: non ci sono pezzi d’aria in cui non si disperdano questi veleni, pertanto anche coloro che li progettano, li producono e li vendono li respirano. Questo per far capire come questi veleni che vanno nell’aria li respiriamo tutti, anche quelli che li producono e li vendono.

Mi auguro si cominci realmente a fare qualcosa, affinché, la salute, DIVENTI UN DIRITTO PER TUTTI.

 

Per. Ind. Rutilio Segatori, Dipendente del comune di Robecco D’Oglio